A CHI SERVE UN CIE A VENEZIA

Secondo quanto assicurato dal ministro Maroni (vedi Corriere del Veneto del 14 ottobre 2010), la tante volte
annunciata apertura di CIE in Veneto doveva essere avviata
entro la fine dell’anno scorso; ma a tutt’oggi, per fortuna,
resta ancora tra i desiderata del razzismo istituzionale.
Da molti anni, almeno dal 2000 durante il governo D’Alema,
era stata ventilata la costruzione di un Cpt in regione
(come previsto dalla legge Turco-Napolitano) e da allora non
si contano le ipotesi di locazione riguardanti tutte le
province venete che sono saltate fuori, prendendo via via in
considerazione ex-strutture militari, una struttura
manicomiale, capannoni industriali, isole lagunari, caserme
alpine, etc.; ma puntualmente, oltre alle manifeste
opposizioni degli antirazzisti, tale progetto ha dovuto puntualmente fare i conti con la contrarietà delle
amministrazioni locali, indipendentemente dalla loro
collocazione politica, comprese quelle leghiste sempre
pronte ad aizzare la persecuzione degli immigrati
“clandestini” ma non disposte ad ospitare un lager vicino a
casa loro.
L’ultima “trovata” ventilata sui giornali riguarda l’area
di Campalto, una frazione veneziana, come possibile luogo
per il Cie. Tale area di quasi 20 ettari è un deposito
militare dismesso, situato in via Orlanda, che secondo il
piano-carceri del ministero della giustizia doveva essere
ristrutturato come galera per 450 detenuti. Questo sito,
indicato con solerzia nel dicembre scorso dal sindaco di
Venezia Orsoni (di centro-sinistra), nei perversi disegni
del ministero dell’interno dovrebbe vedere anche
l’abbinamento di un Cie con 300 posti per i “clandestini”.
Anche in questo caso, il comune di Venezia ha approvato a
larghissima maggioranza (con la furbetta astensione
leghista) una mozione (presentata dal consigliere
verde-disobbediente Caccia assieme al capogruppo del Pd
Borghello) di rigetto del Cie a Campalto. Persino il
governatore della regione, il leghista Zaia, è stato
costretto ad un slalom di prese di posizione.
Analoga contrarietà era stata espressa dai sindacati di
polizia (Sap, Coisp, Siulp…) per le note carenze
d’organico, nonchè dall’associazionismo democratico,
dall’area disobbediente e dalla Caritas, per bocca del suo
noto direttore, monsignor Pistolato, tutti pronti a formare
comitati unitari. Peccato che la Caritas sia la stessa
associazione che co-gestisce l’organizzazione interna di
numerosi Cie in Italia e che monsignor Pistolato sia lo
stesso che nel 2008 sollecitò e appoggiò l’ordinanza del
comune di Venezia contro i mendicanti, soprattutto rom e
sinti. Ed è pure lo stesso che, appena un mese fa, si era
dichiarato contrario ai 10-12 mila lavoratori immigrati previsti
per Veneto dall’ultimo decreto flussi, ritenendoli come
possibile causa di conflitti etnici.
Non è forse che la contrarietà della Caritas diocesana
nasconde altre preoccupazioni?
Il dubbio è legittimo, dato la Caritas sembra aver
soltanto adesso scoperto che “il Cie, come strutturato, si
colloca al di fuori dello spirito e della lettera della
Carta Costituzionale (cfr. art. 3 comma 1), per la forma di
eccessiva coercizione che viene esercitata nei confronti di
persone e questo senza alcuna distinzione”
, dopo aver
beninteso riconosciuto “il diritto-dovere da parte delle
istituzioni statuali di identificare in modo adeguato le
persone presenti nel territorio nazionale”
. Infatti, nel suo
comunicato la Caritas non perde l’occasione per
autopromuoversi proponendo “di aprire un tavolo di confronto
tra i diversi soggetti istituzionali, del privato sociale ed
ecclesiali che operano nell’ambito dell’immigrazione per
poter individuare dei percorsi condivisi. Le Caritas con
Migrantes, su un modello diverso,
potranno partecipare in questi Centri di Identificazione
attraverso l’animazione, proponendo delle attività
culturali o ricreative, avere la presenza di mediatori
culturali e attivare segni di prossimità con le comunità
adiacenti ai centri”.
Della serie: business is business.

Un compagno veneziano di Aranea

Gentrificazione a Berlino e lotte per gli spazi sociali

Il neologismo gentrificazione non indica altro che una serie di processi sociali fortemente connessi alla valorizzazione fondiaria. Soprattutto nelle grandi metropoli europee, la riqualificazione urbana dei vecchi quartieri periferici e popolari innesca dei processi di valorizzazione degli immobili con il conseguente aumento dei prezzi. Tali aumenti tendono ad espellere le fascie sociali che hanno meno potere di acquisto, quindi molto spesso gli anziani, i migranti, i precari e le giovani coppie.
La Berlino dei primissimi anni ’90 rappresentava un terreno di speculazione molto appetibile. La caduta nel muro aveva infatti reso disponibili interi vecchi quartieri soprattutto nella parte Est. I grandi proprietari immobiliari capirono prima di molti altri che cosa stava diventando Berlino e utilizzarono proprio la potenza creatice degli abitanti per i propri tornaconti. Ad esempio furono affittati a prezzi ridicoli centinaia di metri quadri di spazi espositivi a giovani artisti, soprattutto in aree di scarso pregio. Gli artisti attirarono in seguito turisti, altri artisti, persone che venivano spinte fuori dalle aree centrali a causa della gentrificazione e furono proprio queste persone a costruire splendidi quartieri che presto attirarono la classe media e poi i ceti più agiati.
Da qui l’apparente paradosso su cui poco si ragiona: sono le scelte della collettività a generare il valore sociale e conseguentemente economico. Le scelte collettive, i modi di vita, sono ciò che rendono possibili i superprofitti per pochi speculatori.
La notte del 2 Febbraio a Friedrichshain , quartiere popolare nel centro-est berlinese, un ingente numero di poliziotti giunti da tutta la Germania ha sgoberato una delle realtà autogestite berlinesi, il Liebig14. Lo sgombero è durato circa cinque ore dopo i compagni e le compagne che abitavano nello spazio si sono asserragliati all’interno. I circa tremila sbirri hanno praticamente isolato il quartiere dal resto della città tramite posti di blocco, impedendo a chiunque di entrare e di uscire, tenendo alla larga tutti coloro che volevano portare solidarietà e aiuto, tenendo a bada persino le telecamere dei media. Agenti in borghese hanno presidiato per giorni gli altri spazi sociali cittadini, identificando chiunque “sospetto” transitasse nei dintorni. Migliaia di solidali, giunti da tutta la Germania, non riuscendo a raggiungere il Liebig14 si sono quindi dispersi nei quartieri di Kreutzberg e Friedrichshain generando violenti scontri con le forze dell’ordine.
Pochi giorni fa ho avuto l’occasione di scambiare alcune considerazioni con i compagni di Liebig14. Nonostante lo sgombero il morale è comunque alto. La solidarietà è giunta loro da tutta Europa e molte persone del quartiere hanno portato loro solidarietà diretta, manifestando preoccupazione per quanto sta accadendo. Lo sgombero di Liebig14, che sorge non a caso nel centro del quartiere, è forse un indice che il processo di gentrificazione è nuovamente in atto. La difficoltà di innescare delle lotte contro la gentrificazione deriva anche dal fatto che i processi che la determinano sono di lungo periodo e vanno via via a selezionare persone diverse. Il nemico è invisibile e si insinua all’interno del tessuto sociale: è in ogni luogo e in nessuno, pronto a cogliere l’occasione migliore per generare profitto. Però, almeno in questo caso, molti all’interno del quartiere hanno avuto l’occasione per verificare di persona quello che il movimento degli squatters berlinesi va ripetendo di anni: la violenza del capitalismo e delle istituzioni complici. Caro cittadino: preparati, è solo una questione di tempo!

More infos:
http://liebig14.blogsport.de/
http://reporter.indivia.net/sgomberato-il-liebig14-a-berlino/

DAI FORNI NAZISTI AI ROGHI DEMOCRATICI – Il continuo sterminio dei rom

“Io non offendo nessuno, ma le brigate nere e i fascisti come anche ci sono oggi non sono esseri umani, lei mi scuserà. Anche oggi dove siamo arrivati?”: questo interrogativo lo pose alcuni anni fa, in un’intervista, Mirko Levak, rom kalderash di Marghera. Mirko è morto  lo scorso dicembre ed era, probabilmente, l’ultimo rom superstite del lager di Auschwitz.
Siamo arrivati al punto… di convivere con un genocidio strisciante, le cui ultime vittime si chiamavano Sebastian, Elena Patrizia, Raoul, Eldeban: quattro bambini rom morti a Roma nell’ennesimo rogo di una baracca, proprio come era successo ad Eva, Danchiu, Dengi e Lenuca nell’agosto del 2007 alla periferia di Livorno.
Ci sono infatti genocidi tragicamente noti ed altri sommersi nella storia: sicuramente, tra questi ultimi, quello degli “zingari” si distingue per durata e accanimento, continuando ad essere perpetrato sino ad oggi con argomentazioni pressoché identiche nei secoli.
La storia conosciuta da questi bambini rom o sinti è quella di una normalità fatta di miseria ai margini della sopravvivenza, freddo, sgomberi in serie, soprusi polizieschi, attentati incendiari, ruspe, ratti e insulti razzisti. A due passi dai palazzi del potere, dalle vetrine ricolme, dalle case riscaldate e con l’acqua, dal finto pietismo per i bambini del Terzo Mondo .
Di fronte a questo abisso, per ogni parola di ipocrita commozione istituzionale se ne devono ascoltare cento che confermano una logica di discriminazione che accomuna regimi totalitari e governi democratici.
Il sindaco postfascista Alemanno che, fin dalla campagna elettorale, aveva promesso l’espulsione di “20 mila immigrati più o meno clandestini che hanno violato la legge” e la prosecuzione dello sgombero dei campi nomadi, non ha perso un attimo per chiedere poteri speciali al fine di “chiudere questi maledetti accampamenti abusivi”. Non casualmente ha rivendicato la sua politica con orgoglio degno di miglior causa: “Abbiamo fatto tutto il possibile. Abbiamo chiuso 5 campi tollerati e sgomberato 310 micro-insediamenti abusivi”.
Per lui l’unica soluzione è la deportazione in altri campi “regolari” già sovraffollati oppure in caserme dismesse e tendopoli vigilate, anche se per il nucleo familiare dei quattro bambini sgomberato già due volte non era stata offerta neppure questa alternativa.
Opinione analoga quella del Ministro degli interni, il leghista Maroni, favorevole al concentramento in campi, eufemisticamente chiamati villaggi della solidarietà, al fine di garantire “la sicurezza di chi vive dentro e di chi vive fuori”. In aggiunta, ha rilanciata la “sua” ordinanza per la schedatura di massa di tutti quelli che vivono nei campi.
Il prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, ha da parte sua precisato che nelle nuove strutture, oltre ad acqua, luce e gas, sarà assicurato un altro genere di servizi: recinzioni, polizia e vigilanza.
E la giustizia, inesorabilmente, sta facendo il suo corso incriminando i poverissimi genitori dei quattro bambini per “abbandono di minorenni”, in quanto impegnati a cercare qualcosa da mangiare; mentre Melita Cavallo, presidente del Tribunale dei Minori di Roma, ha alimentato il pregiudizio e l’ostilità verso i “nomadi”, facendo credere che tutti i bambini rom sono sfruttati e malmenati dai genitori e che per questo motivo “dar loro denaro significa perpetuare questo stato di vera e propria schiavitù”.
Così ora la gente perbene avrà pure l’alibi legale per negare un’elemosina.

Anti

Resoconto sul blocco del treno Castor in Valsusa fra il 7 e 8 febbraio 2011

Resoconto sul blocco del treno Castor in Valsusa fra il 7 e 8 2/2011

Da una settimana girava voce di un passaggio, fra il 6 e l’8 febbraio, di un treno Castor in Piemonte, in direzione della Francia. Nella giornata di domenica sono arrivate informazioni più precise che individuavano il passaggio del treno nella notte.
Si è cercato di divulgare la notizia più rapidamente e diffusamente possibile ed è stato convocato un presidio a partire dalla mezzanotte alla stazione di Chiusa Condove (Valsusa).
Erano presenti al presidio circa quaranta persone di cui la maggior parte anarchici e qualche valligiano. Nel giro di poco tempo il presidio è stato circondato da un gran numero di sbirri, circa 200.
Alle tre e mezzo, in prossimità dell’arrivo del treno, la DIGOS ha cercato di allontanarci dalla linea ferroviaria.
Nonostante l’inferiorità numerica, abbiamo provato a bloccare i binari con dei copertoni e la polizia ha subito caricato da diversi lati il gruppo. Abbiamo ritenuto fosse necessario azzardare e tentare comunque di opporci, ben coscienti di quello cui andavamo incontro, spinti da una giusta tensione etica.
Alcuni compagni sono rimasti feriti e sono state fermate tre persone. Nella mattinata due dei fermi si sono tramutati in arresto.
Per più di due ore la polizia ha sottoposto l’area a un completo controllo militare, tenendo in stato di fermo 29 presidianti, poi identificati, perquisiti e denunciati, e chiudendo le statali di accesso alla zona.
Alle quattro e trenta circa è passato un primo convoglio a velocità sostenuta, composto di motrice elettrica, vagoni passeggeri vuoti e fra essi il contenitore delle scorie. Verso le cinque è arrivato un secondo convoglio che ha sostato in stazione fino alle sei. Questo secondo convoglio era formato da una motrice diesel e vagoni passeggeri con a bordo vigili del fuoco, tecnici e agenti antisommossa. In coda, un vagone aperto portava qualcosa che somigliava a un’antenna.
Durante la sosta i tecnici sono scesi in modo concitato dal treno e hanno esaminato attentamente i binari.
Alle ore sei il secondo treno è tornato indietro. Secondo informazioni che abbiamo ricevuto, anche il primo avrebbe fatto lo stesso. Infatti, tra il passaggio del primo e del secondo treno, pare ci siano stati almeno due blocchi con materiale incendiato sui binari.
I treni sono ripartiti in mattinata e, secondo il sito “sortir du nucleaire”, arrivati con 4 ore di ritardo alla frontiera. Anche il traffico ferroviario della mattinata ha subito delle ripercussioni.
Questi trasporti di materiale altamente radioattivo, dei quali la popolazione è tenuta all’oscuro, proseguiranno per circa un anno tra il deposito di Saluggia (Vercelli) e la Bretagna.
Esprimiamo solidarietà ai nostri compagni arrestati, Guido e Arturo, da sempre impegnati nella lotta contro le nocività e contro questo miserabile esistente.
Riteniamo che questa lunga notte di lotta sia servita a evidenziare la costante presenza del nucleare nelle nostre vite e nei nostri territori e a dimostrare che anche in pochi è possibile agire.
Ci auguriamo che questa sia un’occasione per tanti di prendere coscienza della gravità della situazione e dell’ urgenza di opporvisi, confidando, quindi, di essere in molti di più la prossima volta.

Comunicato Movimento No Tav: ARRESTI E FERITI X BLOCCO SCORIE NUCLEARI+ COMUNICATO DEL MOVIMENTO NO TAV http://lombardia.indymedia.org/node/36100

Intervista con un attivista comunista anarchico in Piazza Libertà al Cairo

Puoi dirci come ti chiami ed a quale movimento fai riferimento?

Mi chiamo Nidal Tahrir, faccio parte di Bandiera Nera, un piccolo gruppo comunista anarchico egiziano.

Tutto il mondo guarda all’Egitto con occhi ed azioni solidali. Tuttavia, a causa dei tagli ai collegamenti internet, le informazioni sono difficili. Ci puoi dire cosa è successo in Egitto nella scorsa settimana? Com’è stato, dal tuo punto di vista?

La situazione in Egitto è ad un punto cruciale. Tutto è iniziato col giorno della rabbia contro il regime di Mubarak il 25 gennaio. Nessuno si aspettava che un appello lanciato da un gruppo informale, via Facebook, denominato “Siamo tutti Khalid Said” (Khalid Said era un giovane egiziano ucciso dalla polizia di Mubarak ad Alessandria la scorsa estate), facesse iniziare tutto questo. Quel martedì ci sono state grosse manifestazioni nelle strade di ogni città egiziana, poi mercoledì è iniziato il massacro. E’ iniziato con la repressione del sit-in a Piazza Tahrir nella notte di martedì scorso ed è continuato nei giorni seguenti, specialmente a Suez. Suez occupa un posto speciale nel cuore degli egiziani, perché fu il centro della resistenza contro i Sionisti nel 1956 e nel 1967. Lì si è combattuto contro le truppe di Sharon nella guerra israelo-egiziana. La polizia di Mubarak ha perpetrato il massacro con un bilancio di almeno 4 morti, 100 feriti, usando lacrimogeni, proiettili di gomma, lanciafiamme, strani liquidi chimici gialli spruzzati sulle persone. Venerdì è stato il “Jumu’ah della Rabbia” – Jumu’ah vuol dire venerdì in arabo, weekend di festa in Egitto e pure in molti paesi islamici. E’ un giorno sacro nell’Islam per le grandi preghiere di questo giorno, chiamate preghiere del Jumu’ah. Era stato previsto che dopo le preghiere di mezzogiorno partissero le manifestazioni, ma la polizia ha tentato di impedire i cortei con tutti i mezzi e con la violenza. Ci sono stati molti scontri al Cairo, (nel quartiere di Mattareyah, Cairo-est), in tutto l’Egitto, ma specialmente a Suez, Alessandria, Mahalla (sul delta, uno dei centri della classe operaia). Da mezzogiorno al tramonto, la gente ha marciato nella città, per confluire in Piazza Tahrir, chiedendo le dimissioni del regime di Mubarak, scandendo un solo slogan: “Il popolo chiede le vostre dimissioni”. Al tramonto, alle 17.00, Mubarak ha imposto il coprifuoco ed ha portato l’esercito in città. Al coprifuoco è seguito un pianificato ritiro della polizia che ha lasciato il posto a criminali e malavitosi noti come Baltagayyah (significato simile a quello de “i bravi” manzoniani, ndt). La polizia aveva pianificato una evasione di criminali dalle prigioni di tutto l’Egitto per terrorizzare la gente. La polizia e l’esercito erano spariti dalle strade, le persone erano impaurite. Nei notiziari radio-TV e dei giornali sono girate notizie di vandalismi in diverse città egiziane, di ladri che sparavano sulle persone. Il popolo ha organizzato “comitati popolari” per rendere sicure le strade. Questa situazione faceva molto comodo al regime, dato che si diffondeva tra le persone il timore per l’instabilità del paese, ma è stato anche il punto di inizio per la costruzione di consigli operai.

Mercoledì 2 febbraio ci sono stati scontri tra oppositori e sostenitori di Mubarak. E’ andata proprio così? Chi sono i “sostenitori di Mubarak?” Che ricaduta hanno questi scontri sull’atteggiamento della classe lavoratrice egiziana?

E’ del tutto sbagliato parlare di scontri tra pro e anti-Mubarak. La manifestazione a favore di Mubarak era composta in gran parte da Baltagayyah e dalla polizia segreta, per attaccare i manifestanti in Piazza Tahrir. Ed è iniziata solo dopo il discorso di Mubarak di ieri, che seguiva poi al discorso di Obama. Personalmente penso che Mubarak si senta come un bue ferito che sta cercando di gettare sangue sui suoi aggressori. Vuole mettere a fuoco l’Egitto prima della sua caduta, facendo credere al popolo che lui è sinonimo di stabilità e sicurezza. Da questo punto di vista ha fatto anche dei progressi, formando una santa alleanza nazionale contro i manifestanti in Piazza Tahrir e contro la “Comune di Tahrir”. Molte persone, specialmente i ceti medi, dicono che i manifestanti devono smetterla perché l’Egitto è in fiamme e la carestia è alle porte, ma non c’è niente di vero, si tratta solo di un’esagerazione. Ogni rivoluzione incontra delle difficoltà e Mubarak sta usando la paura ed il terrore per durare più a lungo. E comunque credo che anche se – e sottolineo SE- i manifestanti fossero i responsabili di questa situazione, Mubarak deve andarsene, lui DEVE farlo per la sua inettitudine a gestire la situazione in corso.

Cosa accadrà nelle prossime settimane? Quanto peserà la posizione presa dagli USA?

Nessuno può sapere cosa accadrà domani o la prossima settimana. Mubarak è un idiota ostinato ed i media egiziani hanno lanciato la più grande campagna mediatica della loro storia per arginare la manifestazione prevista per il 4 febbraio. Si parla di un milione di persone in Piazza Tahrir, nel “Jumu’ah della salvezza”. La posizione presa dagli USA peserà eccome. Mubarak è un traditore, capace di uccidere il suo popolo, ma non potrebbe mai dire di no ai suoi padroni.

Quale è stata la partecipazione degli anarchici su posizioni di classe? Chi sono i vostri alleati?

L’anarchismo in Egitto non ha molta influenza. Ci sono gli anarchici ma non sono ancora una corrente influente. Gli anarchici egiziani hanno preso parte tanto alle proteste quanto ai comitati popolari per difendere le strade dai malavitosi. Gli anarchici egiziani ripongono molte speranze in questi consigli popolari. I nostri alleati sono i marxisti, naturalmente. Non è tempo di dispute ideologiche – tutta la sinistra fa appello all’unità e si evitano le polemiche. In Egitto gli anarchici fanno parte della sinistra del paese.

Quali forme di solidarietà si possono costruire tra rivoluzionari egiziani e rivoluzionari in “occidente”? Cosa si può fare nell’immediato e cosa si dovrebbe fare sul lungo termine?

L’ostacolo maggiore per i rivoluzionari egiziani è il taglio delle comunicazioni. I rivoluzionari occidentali devono fare pressioni sui loro governi per impedire che il governo egiziano tagli le comunicazioni. Nessuno può dire cosa accadrà a lungo termine. Se la rivoluzione vince, i rivoluzionari dell’Occidente devono costruire solidarietà con i compagni egiziani contro un’attesa aggressione da parte dei USA ed Israele. Se la rivoluzione perde, ci sarà un massacro per tutti i rivoluzionari egiziani.

Quali saranno le prime cose da fare, una volta che Mubarak si sarà dimesso? Se ne parla nel movimento per le strade? Cosa propongono i rivoluzionari anticapitalisti?

La cosa più importante ora, parlando delle rivendicazioni della piazza, è una nuova costituzione ed un governo provvisorio, e poi nuove elezioni. Su questo puntano molte componenti del movimento, specialmente i Fratelli Musulmani. I rivoluzionari anticapitalisti non sono poi tanti al Cairo – i comunisti, la sinistra democratica ed i trotzkysti chiedono le stesse cose su costituzione e nuove elezioni, ma per noi anarchici – anticapitalisti ma anche anti-statalisti – si tratterà di assicurare che i comitati popolari costituiti per proteggere e rendere sicure le strade, possano rafforzarsi e trasformarsi in veri consigli.

Vuoi dire qualcosa ai rivoluzionari all’estero?

Cari compagni in tutto il mondo, abbiamo bisogno di solidarietà, di una grande campagna di solidarietà e la rivoluzione egiziana vincerà!!

Audio Intervista (in inglese): http://electricrnb.podomatic.com/entry/2011-02-03T00_56_54-08_00?x

Intervista a cura del Segretario Internazionale della NEFAC, pubblicata da Anarkismo.net

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali

I padroni ci fanno la guerra: facciamo guerra ai padroni!

Alla Fiat e in ogni dove, nei paesi ricchi e in quelli poveri, i padroni, quando possono, cancellano qualsiasi “diritto” acquisito. I padroni se si sentono forti colpiscono duro.
L’appetito vien mangiando e quello dei padroni è insaziabile: perché accontentarsi di averci piegati quando possono metterci in ginocchio?
Perché accontentarsi di pagarci poco quando possono pagarci ancora meno?

I padroni non hanno altro interesse che il loro profitto, vogliono sempre imporre il totale disciplinamento dei lavoratori: niente garanzie, riduzione del salario, zero conflitto.
Il padrone dice “o lavori come dico io, o ti chiudo la fabbrica.
Di ricatto in ricatto ci stanno riducendo in schiavitù.
Loro guadagnano e chi lavora sta sempre peggio. Ci stanno facendo pagare la crisi, dicendo che siamo sulla stessa barca: loro a contare i soldi e noi incatenati al remo.
Tra i rematori i lavoratori stranieri pagano doppio. Se perdono il lavoro perdono anche il permesso di soggiorno, rischiano di finire in quei lager chiamati CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e poi di essere espulsi. I padroni ed i loro cani da guardia, fascisti e leghisti, fanno di tutto perché i lavoratori italiani si incazzino con i lavoratori stranieri, anziché con i padroni. Ma, facendosi la guerra tra poveri, si finisce con lo stare tutti peggio e i padroni ci sguazzano da anni. Se gli stranieri sono obbligati da leggi razziste a chinare la testa, diventa più facile ricattare anche tutti gli altri.
I padroni ci vogliono nemici degli immigrati e dei poveracci serbi, brasiliani, polacchi, perché in troppi hanno dimenticato che i lavoratori, uniti, possono fare male al padrone, molto male.
Chi lucra sulle nostre vite, chi ci sfrutta sino all’osso, non guarda in faccia nessuno: i padroni non sono razzisti ma la guerra tra poveri gli fa molto comodo. Per questo fomentano le isterie sulla sicurezza, hanno voluto i militari in strada, le periferie strette tra la povertà e la paura di un domani che è già oggi.
Il nemico di tutti gli sfruttati di tutti i senza potere, italiani ed immigrati, il nemico vero, siede sui banchi del governo, nei consigli di amministrazione di banche e aziende.

Per anni CISL, UIL e, anche, la CGIL, veri sindacati di Stato, si sono fatti garanti della pace sociale. Negli stessi anni pezzo a pezzo padroni e governi si sono portati via quello che restava delle tutele e delle garanzie, strappate dai lavoratori in decenni di lotte durissime. Quello che sta per capitare alla Fiat è il pane quotidiano di tanti lavoratori, condannati alla precarietà a vita, a lavorare per 10/12 ore per salari sempre più miseri.
Non vale che la FIOM pianga perché Marchionne taglia fuori chi non firma, perché questo modello di relazioni sindacali lo hanno avallato anche loro per anni e anni. Sin dai famigerati accordi del 1993.

Possiamo fare a meno di burocrati e sindacati di Stato. Rifiutiamo la delega, riprendiamo in mano le nostre vite: azione diretta contro lo Stato e il Capitale.

Possiamo fare a meno dei padroni. Lasciamo in eredità ai nostri figli un mondo senza sfruttamento e senza gerarchie.
Rispediamo al mittente il ricatto di Marchionne, facciamo sì che la paura cambi di campo, che siano i padroni a temere per i loro profitti.
La proprietà privata delle fabbriche non è un diritto ma un furto.
Marchionne vuole andarsene in Canada? Che ci vada! Chi lo ferma? Le fabbriche sono di chi ci lavora: prendiamocele! I lavoratori possono fare da soli e meglio, perché mirano alla qualità della vita di tutti e non al mercato. Vogliamo fare SUV in una città dove si muore di inquinamento? O vogliamo una città per chi ci vive e non per i profitti dei padroni?
Facciamola finita con chi ci dice di abbassare sempre la testa. Alziamola, invece, la testa e iniziamo a lottare per un mondo di liberi ed eguali. In Italia e ovunque nel mondo.

Occupiamo le fabbriche! Licenziamo padroni e burocrati!

Volantino distribuito durante la manifestazione del 28 gennaio a Padova

Rais LeBled, El Général, inno della ribellione in Tunisia – Solidarietà ai ribelli tunisini

Riporto il testo di Rais LeBled, l’inno delle ribellioni in Tunisia. La canzone del rapper El Général, che per queste parole è stato arrestato a Sfax giovedì scorso. Condividetela in rete! Massima solidarietà ai ragazzi della riva sud. Soprattutto in queste ore di fuoco. La polizia tunisina infatti ha iniziato a sparare sulle manifestazioni. Solo ieri almeno 20 morti tra Kasserine e Thala. Mentre ormai anche l’Algeria è messa a ferro e fuoco (3 morti, 800 feriti e 1.000 arresti in tre giorni) da una generazione che non ha più niente da perdere. La corruzione dei governi ha azzerato i loro sogni nel futuro. E la morsa del regime ha azzerato ogni forma di dissenso che non sia la rivolta.
Ai rivoltosi tunisini tutta la mia solidarietà.

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Riassunto del caso Battisti e l’orgia mediatica delle destre in piazza

Riassuntino personale dei fatti cercando di capire perché intellettuali come Bernard-Henry Lévi, Daniel Pennac, Gabriel Garcìa Màrquez e Fred Vargas diano solidarietà a un personaggio come Battisti.

1. Non esisterebbero prove certe della sua colpevolezza, ma solo dichiarazioni di suoi ex compagni pentiti;
2. Non è stato condannato come esecutore materiale del delitto Torregiani, bensì come organizzatore dell’agguato. Il figlio del gioielliere fu ferito per errore da un proiettile sparato dal padre, non dal terrorista rosso;
3. Per il delitto Sabbatin, Battisti fu accusato dal pentito Pietro Mutti, ma in un secondo tempo il militante dei PAC, Diego Giacomin (ex militante dei PAC dissociato), confessò di essere stato lui a eliminare il macellaio. Teniamo conto che i delitti Torregiani e Sabbadin sono avvenuti quasi in contemporanea quindi o ha partecipato all’uno o all’altro;
4. Per l’omicidio Santoro (maresciallo della Polizia penitenziaria) è sempre Mutti ad accusare Battisti, ma in seguito quest’ultimo è costretto ad ammettere di essere lui stesso l’assassino del maresciallo;
5. Campagna (digossino), invece, ha un assassino reo confesso: Giuseppe Memeo. Tuttavia, sempre secondo il super pentito, Battisti avrebbe agito insieme a Memeo;
6. Per il Ministro della Giustizia brasiliana Tarso Genro l’iter giudiziario non è del tutto trasparente per questi 3 punti: il ricorso alla tortura per estorcere confessioni in fase istruttoria, l’uso di testimoni minorenni e/o con turbe mentali, la moltiplicazione dei capi d’accusa in base alle dichiarazioni di un pentito di incerta attendibilità;
7. Battisti non è in vacanza bensì si trova da quasi due anni in un carcere brasiliano. Ha solo ottenuto asilo politico.

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