A CHI SERVE UN CIE A VENEZIA

Secondo quanto assicurato dal ministro Maroni (vedi Corriere del Veneto del 14 ottobre 2010), la tante volte
annunciata apertura di CIE in Veneto doveva essere avviata
entro la fine dell’anno scorso; ma a tutt’oggi, per fortuna,
resta ancora tra i desiderata del razzismo istituzionale.
Da molti anni, almeno dal 2000 durante il governo D’Alema,
era stata ventilata la costruzione di un Cpt in regione
(come previsto dalla legge Turco-Napolitano) e da allora non
si contano le ipotesi di locazione riguardanti tutte le
province venete che sono saltate fuori, prendendo via via in
considerazione ex-strutture militari, una struttura
manicomiale, capannoni industriali, isole lagunari, caserme
alpine, etc.; ma puntualmente, oltre alle manifeste
opposizioni degli antirazzisti, tale progetto ha dovuto puntualmente fare i conti con la contrarietà delle
amministrazioni locali, indipendentemente dalla loro
collocazione politica, comprese quelle leghiste sempre
pronte ad aizzare la persecuzione degli immigrati
“clandestini” ma non disposte ad ospitare un lager vicino a
casa loro.
L’ultima “trovata” ventilata sui giornali riguarda l’area
di Campalto, una frazione veneziana, come possibile luogo
per il Cie. Tale area di quasi 20 ettari è un deposito
militare dismesso, situato in via Orlanda, che secondo il
piano-carceri del ministero della giustizia doveva essere
ristrutturato come galera per 450 detenuti. Questo sito,
indicato con solerzia nel dicembre scorso dal sindaco di
Venezia Orsoni (di centro-sinistra), nei perversi disegni
del ministero dell’interno dovrebbe vedere anche
l’abbinamento di un Cie con 300 posti per i “clandestini”.
Anche in questo caso, il comune di Venezia ha approvato a
larghissima maggioranza (con la furbetta astensione
leghista) una mozione (presentata dal consigliere
verde-disobbediente Caccia assieme al capogruppo del Pd
Borghello) di rigetto del Cie a Campalto. Persino il
governatore della regione, il leghista Zaia, è stato
costretto ad un slalom di prese di posizione.
Analoga contrarietà era stata espressa dai sindacati di
polizia (Sap, Coisp, Siulp…) per le note carenze
d’organico, nonchè dall’associazionismo democratico,
dall’area disobbediente e dalla Caritas, per bocca del suo
noto direttore, monsignor Pistolato, tutti pronti a formare
comitati unitari. Peccato che la Caritas sia la stessa
associazione che co-gestisce l’organizzazione interna di
numerosi Cie in Italia e che monsignor Pistolato sia lo
stesso che nel 2008 sollecitò e appoggiò l’ordinanza del
comune di Venezia contro i mendicanti, soprattutto rom e
sinti. Ed è pure lo stesso che, appena un mese fa, si era
dichiarato contrario ai 10-12 mila lavoratori immigrati previsti
per Veneto dall’ultimo decreto flussi, ritenendoli come
possibile causa di conflitti etnici.
Non è forse che la contrarietà della Caritas diocesana
nasconde altre preoccupazioni?
Il dubbio è legittimo, dato la Caritas sembra aver
soltanto adesso scoperto che “il Cie, come strutturato, si
colloca al di fuori dello spirito e della lettera della
Carta Costituzionale (cfr. art. 3 comma 1), per la forma di
eccessiva coercizione che viene esercitata nei confronti di
persone e questo senza alcuna distinzione”
, dopo aver
beninteso riconosciuto “il diritto-dovere da parte delle
istituzioni statuali di identificare in modo adeguato le
persone presenti nel territorio nazionale”
. Infatti, nel suo
comunicato la Caritas non perde l’occasione per
autopromuoversi proponendo “di aprire un tavolo di confronto
tra i diversi soggetti istituzionali, del privato sociale ed
ecclesiali che operano nell’ambito dell’immigrazione per
poter individuare dei percorsi condivisi. Le Caritas con
Migrantes, su un modello diverso,
potranno partecipare in questi Centri di Identificazione
attraverso l’animazione, proponendo delle attività
culturali o ricreative, avere la presenza di mediatori
culturali e attivare segni di prossimità con le comunità
adiacenti ai centri”.
Della serie: business is business.

Un compagno veneziano di Aranea