NESSUNA ECCEZIONE ALLO STATO DI ECCEZIONE

Arsenico. Utopie e ammutinamenti

 

 

Want to buy some illusions

Slightly used, second-hand?

They had a touch of paradise,

A spell you can’t explain,

For in this crazy paradise

You are in love with pain.

(Friedrich Hollaender, 1948; Marlene Dietrich, A Foreign Affair, 1948)

 

 

A seguito della modifica costituzionale francese allo stato di emergenza, chiesta da Hollande dopo gli attentati del novembre 2015, abbiamo ascoltato e letto accorate preoccupazioni – non solo istituzionali – circa il rischio di sospensione della democrazia.

Com’è noto, tale modifica costituzionale può ordinare la limitazione delle libertà formali personali per un periodo di tempo di tre mesi; precedentemente la costituzione francese prevedeva la medesima norma per una durata complessiva di 12 giorni.

Ben lungi dall’essere una norma golpista frettolosamente introdotta dal presidente socialista, l’attuale decisione di Hollande si colloca perfettamente all’interno della tradizione repubblicana poiché, lo abbiamo appena visto, lo stato di emergenza è costitutivamente regola costituzionale, non una sua eccedenza o eccezione.

Ciò che scandalizza dunque lorsignori non è la qualità della norma quanto la sua “quantità”: si preferirebbe cioè mantenere una “giusta” quantità di violenza, di repressione, di autoritarismo, di forza, di ingiustizia sociale, di ipocrisia. Poi, a seguito della spettacolarità delle azioni terroristiche parigine, la giusta distanza e misura aritmetica della politica del benpensantismo di sinistra sono cadute a pezzi come i vetri del Bataclan.

Oltre all’allungamento dello stato di emergenza nel paese da due a 12 settimane, lo Stato in emergenza ha deciso di predisporre l’ennesimo bombardamento di Raqqa e l’intensificazione della guerra in Siria, tentando di porsi a capo di una sgarrupata armata di paesi europei Nato nell’impresa già avviata. Tutto questo cibo per gli occhi sarà accuratamente divulgato all’opinione pubblica, come ulteriore approfondimento della guerra interna, con l’inutile farsa del Cop21 a introdurre l’entrata in scena dello Stato “tutto d’un pezzo ma senza perdere la delicatezza”.

A interessarsi del “rischio” di assottigliamento dello stato di diritto è anche la star americana Judith Butler, preoccupata che “lo stato di emergenza dissolva la distinzione tra Stato ed esercito”[1].

Esiste davvero una distinzione tra un presupposto stato di diritto e il suo braccio armato, tra il legislatore e il suo celebre dispositivo di monopolio della violenza?

In una conferenza al Collège international de philosophie di Parigi dell’ormai lontano 1996, Giorgio Agamben si chiedeva se “dimoriamo ancora senza rendercene conto sui margini del nazismo”[2]. Basta leggere Agamben per comprendere quanta comoda e compatibile banalità vi sia nelle parole di Butler, e nella attuale interpretazione riformista della governance foucaultiana di Toni Negri, messa fortemente in discussione da intellettuali a lui vicini come, ad esempio, Maurizio Lazzarato[3].

Agamben, com’è noto, ri-definisce il foucaultiano esercizio moderno del potere come potere sulla vita[4]: l’uomo cessa di essere ciò che era per Aristotele, “un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica”[5], per divenire “un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente”[6]. L’intento è dimostrare che la disposizione delle tecniche di bio-potere emerge non tanto da un arte del governare, quanto da una teoria del potere sovrano, rielaborando criticamente la definizione schmittiana di sovrano, inteso come “colui che decide della situazione di eccezione”[7]. La sovranità non è dunque la fonte esclusiva della produzione di leggi, ma la capacità di disporre lo spazio di esclusione all’interno stesso dell’ordine giuridico:

 

«Riprendendo un suggerimento di J. L. Nancy, chiamiamo bando (dall’antico termine germanico che designa tanto l’esclusione dalla comunità che il comando e l’insegna del sovrano) questa potenza (nel senso proprio della dunamys aristotelica, che é sempre anche dunamys me energhein, potenza di non passare all’atto) della legge di mantenersi nella propria privazione, di applicarsi disapplicandosi. La relazione di eccezione é una relazione di bando»[8].

 

La determinazione politico-filosofica di sovranità è distintamente affrontata in due inconciliabili versioni, quella butleriana che definisce lo Stato come origine della norma legale e principio di una rigorosa partizione tra violenza e diritto; quella agambeniana che colloca lo Stato a principio di una decisione sulla situazione d’eccezione, nella quale è impossibile distinguere il fatto e il diritto.

Hollande agisce in una relazione di bando, e non da ora, men che meno unico nella fortezza Europa. Viviamo da sempre immersi in una relazione di bando poiché laddove esiste legge vi è chi ne è incluso e chi non lo è, con buona pace delle retoriche contrattualiste democratiche. E’ la legge a costruire spazi giuridici e non lo abbiamo inventato noi, ma chi la legge dispone.

E se il corpo politico è “affetto” da simile pre-disposizione, il suo applicarsi disapplicandosi non è eccezione, ma regola assiomatica.

Siamo banditi, quando la porta chiusa dietro di noi è quella di un Cie-Cpt, di un lager africano, di un campo-nomadi delimitato da torri carcerarie, o quella dei recinti di filo spinato, in Val di Susa come in Serbia o Ungheria. In quale “condizione democratica” ci troviamo se non in quella di banditi da territori dello Stato, quando veniamo catturati da dispositivi amministrativi definiti languidamente “fogli di via”?

A dispositivi di cattura corrisponderanno azioni di evasione, questo è già il presente.

Non perderemo tempo con chi vuol giocare alle guardie – non saremo più o meno ladri per questo, ma per nostra libera scelta – e di certo non ci interessa arruolarci nei passatempi dell’idiota democratico.

Se a Parigi, nel lampo di dolore, si è avuto solo un breve, intenso momento di deflagrazione di realtà dall’incubo quotidiano contemporaneo, esso si è subito assopito nella decerebrante e “social” opposizione tra gli allegri della Ville Lumière e gli oscuri del Daesh, in una recita hollywoodiana (in)degna di Star Wars.

Nell’odierno esercizio di esclusione, mentre lo Stato limita l’organizzazione dei corpi nello spazio-tempo, politicizza i loro recinti e carceri, arruolando il qualunquismo nel parossismo della merce, reificando ciò che è già reificato, spettacolarizzando lo spettacolo.

Continuate dunque ad andare ai bistrot a bere champagne, come usava suggerire Marie Antoniette! Le merci devono girare, le bombe cadere, gli uomini e le donne consumare.

Consumare consumandosi, tra un attentato urbano e quello rituale quotidiano alla propria vita.

Eppure, tra le crepe di queste macerie che chiamiamo società, c’è chi osserva i punti deboli e le vie di fuga, disegna portolani mobili, allestendo in fretta e furia attracchi d’emergenza, illuminando fari abbandonati, abbordando in alto mare.

 

 

[1] www.effimera.org/il-lutto-diventa-legge-di-judith-butler/

[2] G. Agamben, Heidegger e il nazismo, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza 2005. Si veda anche http://aranea.noblogs.org/la-tragedia-dell’avanspettacolo/

[3] M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, 2013. Si veda in particolare pp. 5-20

[4] Cfr. M. Foucault, La volonté de savoir, Paris 1976; secondo l’edizione italiana, La volontà di sapere, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Milano 2013, p. 123 (ed. fr. p. 183).

[5] M. Foucault, cit. p. 127 trad. it. p. 188.

[6] Ibid.

[7] «Souvëran ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet», C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, trad. it. a cura di P. Schiera, Bologna 1972, p. 33.

[8] G. Agamben, Homo sacer I, Einaudi, 2005, p. 34.

 

Grecia domenica 5 Luglio 2015: andare a votare? Col cazzo!!

col cazzoNessuna guerra tra i popoli, nessuna pace tra le classi!

Domenica 5 Luglio 2015 i Greci voteranno un referendum indetto dal governo Tsipras – una coalizione comprendente Syriza, Anel e altri indipendenti – in cui si valuterà se il popolo greco ha intenzione di sottostare ai diktat di austerità dell’Unione Europea-Banca Centrale Europea-Fondo Monetario Internazionale.

Il governo greco, come tutti i governi, ricopre il ruolo di preservare e difendere un sistema fondato sul Capitale e sullo Stato, ovvero un modello socio-economico che, con lo sviluppo della tecnologia, ha via via affinato scientificamente il modello di produzione capitalistico attuale fino a raggiungere traguardi non solo di “progresso” ma anche di sfruttamento, crisi e guerre, le quali devastano l’ambiente circostante e gli individui che subiscono appieno tale modello economico.

L’ultima cosa che vorrebbero sia il governo greco attuale che gli investitori stranieri presenti nel territorio ellenico, è quello di veder destabilizzare una situazione interna che sta via via diventando instabile.

La “carta vincente” per mantenere lo status quo corrente è il referendum.

Il popolo greco, chiamato alle urne questa domenica, dovrà decidere se accettare o meno i diktat imposti da un sistema socio-economico odierno. Di conseguenza il referendum è la classica paraculata per mezzo del quale il governo greco, indipendentemente dal risultato che otterrà, si potrà fregiare del risultato di aver fatto decidere al suo popolo. E ciò, all’estero, viene presentata come una sfida alla Troika, mentre all’interno del paese continueranno ad entrare i capitali esteri (Cinesi e Russi in primis) e continuare la politica di  repressione poliziesca.

Partendo da tutto questo, affermiamo che non solo ci opponiamo contro questa propaganda elettorale portata avanti da coloro che spacciano tali conquiste come rivoluzionarie, ma sosteniamo a gran voce quelle realtà votate all’emancipazione del lavoro salariato e al sovvertimento dello Stato presenti sul territorio greco.

Noi siamo fiduciosi in quei greci che credono in una creazione di modelli socio-economici anticapitalisti!

Opponiamoci alla trasformazione del lavoro fatto dai/dalle compagn* in una parodia social-democratica per la ristrutturazione del debito!

 Anarchici veneti

 

L’APOLOGO DEI DUE SACCHI

Work or riot, one or the other!
I  nostri nonni ci ricordavano che servono sempre due sacchi, uno per darle e uno per prenderle; ma, negli ultimi anni, il secondo si è andato facendo sempre più pesante e sbilanciato rispetto al primo.
Mercoledì 29 ottobre; risveglio tardivo per certa sinistra e certo sindacalismo: non solo è scaduto il tempo della concertazione, la polizia manganella persino gli operai della Thyssen che protestano pacificamente.
Doveva accadere in una piazza romana e coinvolgere i metalmeccanici, compresi alcuni dirigenti sindacali, perché fosse evidente l’attitudine squadrista dei governi “delle larghe intese” nella gestione del conflitto sociale.
In realtà, le cronache degli ultimi mesi registravano già un crescendo di aggressioni violente ed interventi polizieschi contro le lotte dei lavoratori, in particolare nel settore della logistica, accompagnate peraltro da atteggiamenti provocatori da parte del premier e della sua corte leopoldina.
Basti ricordare, tra i tanti episodi, le cariche contro i facchini presso la Coop Centrale Adriatica ad Anzola nel bolognese (22 marzo 2013); quelle contro il picchetto dei lavoratori della Granarolo a Bologna (25 giugno 2013) e le non meno dure ai danni dei lavoratori della Cogefrin presso l’Interporto di Bologna (21 novembre 2013).
La nomina di Renzi a presidente del consiglio è coincisa quindi con un ulteriore inasprimento della tensione e del ricorso alla forza pubblica, sotto la guida di un ministro dell’Interno come Alfano al quale non è rimasta altra risorsa per affermare la propria esistenza politica.
In questo 2014, la polizia è intervenuta coi soliti metodi contro i lavoratori e le lavoratrici degli “Appalti Storici” di Pomezia (19 febbraio), quindi sono seguite le cariche contro un picchetto all’Ikea a Piacenza (7 maggio), poi contro i facchini del CAAT a Torino (23 maggio) e poi nel milanese contro il picchetto dei facchini alla Dielle a Cassina de’ Pecchi (25 maggio). Altre manganellate contro un picchetto dei facchini alla Conor a Bologna (1 luglio) e le cariche contro i lavoratori della Mirror a Ferrara (3 ottobre).
Nel generale disinteresse dei media e dei politicanti, contro il diritto di lottare per difendere il proprio reddito rifiutando le forme moderne dello schiavismo salariato, lo stato da tempo cerca di terrorizzare preventivamente ogni espressione di rivolta, specie se vede protagonisti lavoratori italiani assieme a quelli migranti.  
Se poi il discorso si allarga alla repressione nei confronti di altri movimenti e soggetti dell’opposizione sociale ci si rende conto che, da Torino a Napoli, dalle occupazioni di case alle resistenze ambientali, ormai siamo ben dentro quella fase da anni prevista e pianificata dagli apparati polizieschi europei per far fronte alle insorgenze collegate all’aggravarsi degli effetti della cosiddetta crisi economica.
Il risveglio collettivo appare brusco e coglie impreparati i più, disabituati a pratiche e situazioni di piazza diverse da quelle della pace sociale e del dialogo con le istituzioni, ma le cose possono e, in parte, stanno già cambiando velocemente.
Si scopre così che il padronato – sino a ieri “mondo imprenditoriale” – è sempre lo stesso, che le contraddizioni di classe non solo esistono ancora, ma si radicalizzano di pari passo al peggioramento verticale delle condizioni di vita e lavoro, mentre i profitti e i privilegi di pochi crescono in modo esponenziale.
La persistenza del capitalismo, con le sue logiche distruttive e antiumane, torna quindi ad essere il problema dei problemi e persino le parole cominciano a cercare una coerenza di senso: gli “operatori della sicurezza” e i “lavoratori della polizia” vengono di nuovo riconosciuti come sbirri e trattati quali gendarmi al servizio del potere.
E’ un primo segno di consapevolezza, non tanto per incentivare lo scontro con le forze dell’ordine, ma necessario per meglio individuare la loro funzione, le cause della loro aggressività e i disegni reazionari a cui obbediscono, nonché attrezzarsi per un’adeguata autodifesa collettiva. 
Resta infatti valido l’avvertimento malatestiano: “Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”.

Altra Info

BECCARIA E’ MORTO, IL BOIA VEGETA

boia
 
Sono infinitamente meno pericolose le passioni del mio vicino che non l’ingiustizia delle leggi, poiché le prime sono contenute dalle mie, mentre nulla arresta, nulla ostacola le ingiustizie della legge.
(De Sade)

Politici, penalisti e intellettuali democratici celebrano quest’anno i 250 anni dalla prima edizione del trattato Dei delitti e delle pene, dove Cesare Beccaria aveva con forza sostenuto che «non vi è libertà ogni qual volta le Leggi permettono che in alcuni eventi cessi di essere Persona, e diventi cosa».

L’illustre autore non poteva immaginare che, dopo due secoli e mezzo, la pena di morte e la tortura oggetto del suo J’accuse appartengono ancora alla realtà di una società che si ritiene civile, evoluta e progressista.

Infatti, la storia della tortura continua ad aggiornarsi, attraverso i secoli, i continenti e le diverse forme di dominio, con un medesimo intento punitivo che prescinde ogni altra considerazione sul rispetto dei diritti umani che, a parole, tutti dicono di voler salvaguardare.

In realtà, dopo la pubblicazione del Dei delitti e delle pene, subito messo all’Indice dalla Chiesa di Roma, in molti accusarono di eccessivo umanitarismo (oggi si direbbe buonismo..) Beccaria, come fece Immanuel Kant che giunse a sostenere che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa» perché altrimenti «il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». D’altronde secondo Kant, «nel momento in cui la legge non può fondarsi sul bene, quale principio superiore, essa non deve nemmeno trovare la sanzione del meglio, quale volontà del giusto» (G.Deleuze). Nonostante i risibili tentativi di chi oggi cerca di rivalutarlo come un filosofo “anarchico”, Kant in questo modo si dimostrava invece preoccupato dal potenziale sovversivo insito nelle tesi di Beccaria che negava alle istituzioni e alla comunità il diritto d’arrogarsi alcun potere che non sia loro direttamente trasferito dalla volontà dei singoli individui concreti.

Analoga incapacità, peraltro, si riscontra  ancora in questo secolo al punto che il ricorso sistematico alla tortura nei confronti dei sospetti terroristi, negli Usa è stato ritenuto un mezzo giustificato dal fine persino da settori ed esponenti liberal, quali ad esempio Alan Dershowitz, esimio professore di legge ad Harvard, favorevole alla sua formale legalizzazione, riecheggiando la cosiddetta “eccezione” di Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica.

Così, pur in contrasto con tutte le convenzioni e i trattati internazionali, il presente e persino il futuro continuano a non liberarsi dal passato, un passato che ci riporta, senza soluzione di continuità, per vincere, l’uno il tradimento e l’altra l’eresia, sia lo Stato che la Chiesa si sono avvalsi infatti di tale metodo basato sul terrore.

Nel 1252, fu Innocenzo IV, nella bolla papale Ad extirpanda a introdurre la tortura come metodo per la ricerca della verità; d’altronde, l’idea stessa di “castigo divino” implicava il principio per il quale, attraverso la sofferenza, era possibile cancellare la colpa riscattandola attraverso la punizione inflitta, sacralizzando così la coincidenza di significato tra dolore e pena e, conseguentemente, benedicendo la figura del boia e dei patimenti impartiti dall’Inquisizione.

Questa tetra immagine ci permette di aprire una riflessione sull’istituzione e l’idea stessa di Giustizia, secondo quanto suggerisce Rafael Sánchez Ferlosio che identifica «i giudici, l’avvocato difensore e il pubblico ministero come il personale di servizio del boia».

Un’idea da rivoltare in maniera radicale, se si vuole comprenderne realmente l’essenza o, come scrive Ferlosio, è necessario percorrere a ritroso la strada così come ci appare, dissimulata dalla morale dominante e dall’assolutismo legalitario.

Considerata infatti l’evidenza per cui la Giustizia continua ad essere soprattutto sinonimo di vendetta, vedendo la priorità del castigare prevalere persino su quella del giudicare, per giungere alla somministrazione del dolore a dei corpi (segregazione, isolamento, tortura, stupro, pena capitale…) e non per provvedere alla riparazione reale dell’ingiustizia, al soccorso della vittima e alla risoluzione preventiva delle cause del delitto. Non appare perciò azzardato condividere l’interrogativo di Ferlosio: «Non sarà dunque, in realtà, il boia il più antico dei funzionari, intorno al quale hanno poi via via preso forma tutti gli altri tramiti anteposti, coi loro corrispondenti funzionari, al cruento proposito della punizione?»

Se nei regimi dittatoriali questo aspetto totalitario appare intrinseco alle rispettive ideologie liberticide, nelle democrazie appare dissimulato e coperto dalla ragione “superiore”, a tutela di una sicurezza collettiva minacciata da presunti nemici esterni e interni. Per cui, anche negli Stati liberali, il confine tra azione politica legale e abuso criminale tende ad annullarsi con la complicità di milioni di “spettatori consenzienti” che ritengono come normale e persino plaudono il lavoro dei torturatori, assieme all’esistenza dei campi di concentramento, alle violenze sessuali autorizzate, alla soppressione delle libertà formali, nonché agli omicidi mirati e alle attività terroristiche messe in atto dagli apparati statali.

A titolo d’esempio, basta ricordare che lo Stato italiano, presentato ogni giorno come garante costituzionale della libertà e della legalità, dimostra il proprio livello di civiltà giuridica, a tutt’oggi non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale e non ha abolito l’ergastolo, dopo essersi presto assolto per le torture e gli stupri perpetrati – e fotografati – dai parà italiani in Somalia durante la missione Restore Hope (1992-’94).

Un presente che se da un lato può far apparire Beccaria un simpatico utopista, dall’altro conferma gli sviluppi della sua critica che sono stati ritrovati alcuni anni fa sotto forma di suoi appunti in calce ad una copia dei suoi scritti.

In queste annotazioni Beccaria faceva intuire l’intenzione di rivedere la sua opera, giungendo ad una critica radicale e persino con aspetti libertari della pena e del controllo sociale sugli individui, mettendo in discussione il diritto delle istituzioni di limitare o addirittura sopprimere la vita, per il semplice fatto che questo diritto non può venir loro trasferito dagli individui.

Da qui, nella consapevolezza che non esiste libertà nella scelta di farsi schiavizzare, tanto meno è ammissibile che un individuo si sottometta all’arbitrio dello Stato nel disporre della sua vita e della sua morte.

Altra Informazione

BLOCCO SENZA SBOCCO: riflessioni sull’idiozia del blocco studentesco

Essendoci casualmente capitato per le mani il n. 19 del giornalino del Blocco Studentesco, ossia la struttura giovanilista di Casapound, è difficile sottrarsi alla tentazione di commentarlo, a partire dallo slogan: “Nessun compromesso bandiera nera!”.

Evidentemente, i redattori sono all’oscuro dell’avvertimento di Ezra Pound: “Gli uomini che vivono sotto il dominio di uno «slogan» vivono in un inferno creato da loro stessi”: quando si afferma una cosa, infatti, bisogna poi darne conto ed essere conseguenti.

Le parole hanno il loro peso, anche quando appaiono maldestramente offerte al lettore, come “passivismo” o “annichilazione”, mimando una cultura elitaria che lo faccia sentire inferiore.

Rifiutare il compromesso però è un programma impegnativo, tanto più se ci si dichiara nemici giurati del sistema.

Al contrario, prendersi i finanziamenti pubblici dal sindaco compiacente, sostenere la destra più borghese (vi ricordate l’on. Santanchè in tour elettorale a Casapound?) o sognare di entrare in parlamento come i camerati greci di Alba Dorata, significa essere già parte del sistema e della società dello spettacolo.

Tralasciando pure il dettaglio che la bandiera nera appartiene semmai alla storia della sovversione proletaria e dell’anarchismo, in contrapposizione e negazione del tricolore nazionale che tutte le componenti parafasciste sventolano con ardore; quello che più colpisce è quanto sia inconsistente l’identità ribellista che i giovanotti e le (rare) giovanotte di Blocco Studentesco cercano di attribuirsi.

Uno studente iscritto alla “classe dei combattenti”, a rigor di logica, dovrebbe in primo luogo rivoltarsi contro ogni potere e autorità, a partire proprio dalla scuola dove s’insegna disciplina e meritocrazia; invece, leggendo il giornaletto scopriamo che la “generazione” dei giovani ribelli dovrebbe “assumere il suo ruolo di colonna portante dell’istruzione e, di conseguenza, dello Stato”, a partire dalla difesa delle istituzioni “che uno Stato veramente degno di questo nome concepisce come primo fondamento della sua struttura”.

Analoga contraddizione è in materia d’economia, infatti appare davvero incomprensibile come si possa in una pagina accusare il governo italiano di favorire i capitali esteri e di svendere le società nazionali, mentre in altre pagine si sostengono sinistri figuri come Chavez, Putin e Bashar Al Hassad che, notoriamente, non hanno certo abolito i rapporti di produzione capitalistici, salvaguardando gli interessi delle multinazionali; tanto notoriamente che persino sullo stesso giornalino, poche pagine dopo, viene esaltato l’operato del boia Hassad che “in 10 anni di governo, ha quadruplicato il PiL della Siria grazie a delle sostanziali riforme di apertura agli investitori stranieri”.

Non casualmente, in Venezuela come in Russia e in Siria, i profitti sono cresciuti senza eliminare le diseguaglianze sociali, mentre sono aumentati i privilegi delle burocrazie statali e di partito.

Un soggetto che si ritiene rivoluzionario dovrebbe opporsi al dominio del capitale, sia questo liberista o di stato, invece queste controfigure non vanno oltre la denuncia verbale del ruolo delle banche similmente ai loro compari grillini, ergendosi a difesa della tradizione proprio di quell’Occidente che ha visto sorgere e svilupparsi il capitalismo che dicono di aborrire. Amano riferirsi alle comunità e ai popoli ma, alla prova dei fatti, continuano a dimostrarsi funzionali, al pari degli apparati polizieschi con cui sono collusi, offrendosi come guardie di frontiera e gendarmi dell’ordine costituito contro le insorgenze popolari.

 

 Complici di Germaine Berton

GIU’ LE MANI DA MARIA!

Da giorni in Italia è in atto l’ennesima, preoccupante, campagna di odio antizigano, fomentato ad arte da trasmissioni sedicenti “di servizio pubblico”, rotocalchi di intrattenimento, telegiornali, quotidiani… Sappiamo che quando parliamo di rom, in questo paese che impedisce ai superstiti dei naufragi di Lampedusa di partecipare ai funerali, lo stato d’animo non è neutro. Questa non è una sensazione, ma una consapevolezza accertabile attraverso la frequentazione delle associazioni di solidarietà con le comunità romanés, la conoscenza e l’informazione attraverso le pubblicazioni, i testi di ricerca, le statistiche delle condizioni drammatiche nelle quali le famiglie rom sono costrette a sopravvivere a causa delle politiche istituzionali locali e nazionali, con la complicità di un razzismo popolare forse senza precedenti. Chi pretende di informare, chi si assume l’onore di fare informazione in Italia ha il doppio onere di essere informato e di trasmettere correttamente le notizie, senza allusioni o esplicite affermazioni di razzismo. E’ stato sostenuto, in una trasmissione televisiva della tv di Stato, che la bambina sarebbe stata rapita da un network di trafficking di minori con sede in Bulgaria, e che sarebbe stata successivamente comprata dalla famiglia rom per “purificare la razza” della comunità romanés. Spesso vediamo, nell’ “altro” da “noi”, lo specchio di ciò che siamo… Niente di quanto è stato sostenuto, con la presunzione e la certezza della Verità granitica, ha ancora alcun fondamento. Un’ipotesi come un’altra, ma che sembra “pesare” più di altre, scartate a priori. L’immagine di Maria e l’utilizzo del suo corpo mediatizzato e strumentalizzato secondo costruzioni comunicative che alludono, spingono a prendere parte, a parteggiare per i bravi (la polizia che l’ha “salvata” dagli “aguzzini”) contro i cattivi (la famiglia rom), denota il contrario della sensibilità dovuta in presenza della salvaguardia di un minore: le foto contrapposte della piccola con i capelli arruffati e le treccine più scure del biondo dei capelli e le manine sporche, contrapposta a quella della bambina “ripulita” dei segni del suo passato “vergognoso”, con il vestitino nuovo e i capelli completamente biondi, al sicuro nell’associazione di affidamento, quasi a voler “smacchiare” una colpa. E’ forse una colpa essere poveri? No, non lo è. E’ una condizione sociale, non una condizione dello “spirito”, né ontologica, né tantomeno “innata”, proprio come la razzista equazione che sta nuovamente passando con ciò che è conosciuto per “linea del colore”: una piccola bionda non può essere figlia di genitori rom. E’ talmente “normale” l’orrore della “razza” che in questi giorni stanno moltiplicandosi, in Europa, massicci controlli nei confronti di famiglie rom con minori “bianchi”. Qualcuno ha forse pensato, riflettuto sul fatto che questi controlli non sono affatto “normali”, né basati su alcunchè di scientifico? Al contrario, a seguito dell’oggettivazione del corpo di Maria – il corpo del reato – cresce l’accanimento poliziesco e razziale verso una minoranza vittima di molti olocausti, piccoli e grandi, nella storia passata e recente di una rilevante parte del mondo. Questo è l’orrore, questo ritorno del passato con gli abiti ipocriti di chi dice di voler tutelare i diritti dei più deboli, sbattendo i mostri in prima pagina: le foto di fronte e di profilo dei due rom del campo greco sulle televisioni pubbliche italiane. Foto terribilmente simili a quelle dei perseguitati del Casellario Politico fascista e dei reclusi nei campi di sterminio nazisti: in entrambi questi elenchi dell’abominio troverete volti di donne e uomini rom. Colpevoli di vivere secondo regole non scritte, colpevoli di essere poveri e di vivere in “discariche” a cielo aperto: non-luoghi nei quali le istituzioni nazionali li costringono a vivere, senza assistenza e lontani dal centro delle città, in periferie abbandonate e prive di mezzi di trasporto. I rom hanno molti doveri per lo Stato italiano, ma nessun diritto. Sono in maggioranza italiani, ma sono trattati peggio che se fossero stranieri. Sappiamo che la costruzione dell’immaginario passa attraverso i corpi, e attraverso le modalità con le quali alcuni corpi contano più di altri, e vengono “raccontati” con differenti “marcature”. Così la cameretta di Maria, in ordine, pulita e ben arredata, è elemento di sospetto in una famiglia poverissima. In un mondo colmo di pregiudizi, questo è ciò che il nostro “sguardo” vuol vedere. Così la giovane e coraggiosa Leonarda, pronta a percorrere la propria strada di autodeterminazione in Francia anche contro le violenze subite in famiglia, viene obbligata a scegliere tra ciò che è ritenuta essere la “sua razza” (la sua famiglia romanés, espulsa in Kosovo) e il cosiddetto diritto/dovere di studio, magari per diventare “una brava francese”. E magari per vergognarsi, in futuro, di avere genitori “rom”. Si parla tanto di aiutare le donne a denunciare chi le stupra e molesta: lo Stato francese si è reso complice della violenza contro Leonarda, spingendola a ritrattare le precedenti accuse verso il padre, a causa dell’attacco del governo francese contro la sua famiglia. Ma l’utilizzo del sessismo per politiche razziste e del razzismo per attacchi sessisti, noi, lo sappiamo riconoscere. Noi sappiamo da che parte stare. La piccola Maria non è figlia “biologica” di chi l’ha comunque accolta e nutrita, pur in povertà. I motivi per i quali la bambina è cresciuta in quella famiglia rom possono essere tantissimi. La tv di Stato e quella privata hanno già decretato il verdetto. Noi stiamo con Maria, con Leonarda e con il popolo rom.

Osservatorio antidiscriminazioni

GIAMPIETRO BERTI, HOMME D’ETAT

Nico_Berti_couv_FRNotevole l’articolo del Luminoso Professore Giampietro Berti su quel quotidiano farlocco che già nel nome esprime la sua intrinseca inessenzialità: Il Giornale [l’articolo trash lo trovate qui].

Il millantatore di filosofia nonché autore dell’imprescindibile intervento scrive che comunismo, fascismo e nazismo sono nemici giurati della modernità e della società aperta. In Italia Croce e Gentile hanno seppellito il pensiero scientifico – continua – e con quali conseguenze!

Per fortuna, seppellendolo, sono scivolati nella fossa…

La punta più alta di cretinismo teorico, tuttavia, fa il suo ingresso quando l’autore rimpiange “il lascito illuministico e positivistico di Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca”, tra gli altri.

Ora, ditemi voi se si può rimpiangere Gaetano Mosca senza rischiare di essere picchiati fino a sputare anche l’ultimo rivolo di sangue sul selciato. Ci mancava proprio, oggi, un ideologo della teoria delle élites!

Lasciamo perdere Mosca, ma Pareto, invece, è il vero capolavoro! Il sostenitore del fascismo italiano (non potè sedere nel parlamento dei manganelli solo per questioni di salute, nonostante la stima personale del duce) nonché illustre esponente del marginalismo economico assieme a Pantaleoni, altro estimatore di Mussolini, è anche uno dei teorizzatori dell’esproprio dei mezzi di produzione a favore di uno Stato collettivista nel quale i proprietari potessero svolgere il ruolo di “funzionari”. Immaginò la curva di indifferenza per permettere alla nostra attuale “scienza” economica di bivaccare, come i manipoli dell’epoca, senza sensi di colpa sui corpi ridotti a merce della nostra bella società aperta, imponendo il postulato dell’inconfrontabilità interpersonale delle utilità.

La falsa coscienza schizofrenica da amatore appassionato del capitalismo non lascerà Berti impunito questa volta!

Ti abbiamo scoperto, lubrico mercante dell’autoritarismo libertario!

La classe operaia non avrà pietà per questo fedele uomo di Stato!

Alcuni affiliati – Società segreta “L’Arrotino”

GIORNALISMO DA ULTIMA SPIAGGIA

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Considerando ormai “fuori gara” i cronisti filo-Tav de «La Stampa», tra le innumerevoli prove di quanto il giornalismo asservito può scendere in basso, quest’estate merita senz’altro una citazione l’articolo comparso alla vigilia di Ferragosto su «Il Giornale» dal titolo “Dalla Tav al Salento il «popolo del No» non va mai in ferie”, a firma di Nadia Muratore, giornalista con un curriculum davvero degno di nota: da collaboratrice di «Polizia moderna» a responsabile dell’ufficio stampa dell’ex ministro Calderoli.
Francamente, va riconosciuto che è difficile concentrare in così poco spazio tante banalità, ben oltre le frontiere del ridicolo, senza alcun altro scopo che cercare di gettare discredito su “l’ultima moda degli antagonisti” che, accipicchia, “paralizzano la crescita”.
L’apertura dell’articolo è classicamente ispirata al paternalismo e deve molto, in fatto di astio e categorie, sia a quel genio di Brunetta (per quanto riguarda gli studenti) che a Grillo (per le accuse verso i pensionati e i pubblici dipendenti).
La tiritera è talmente campata in aria da far arrossire, ma vale la pena riprenderla. Da chi è dunque composto questo “popolo del Non fare”? Risposta: da “Studenti fuori corso – per lo più bamboccioni – impiegati frustrati (…) e pensionati nostalgici”.
A seguire, la “giornalista” cuneese cerca di colpevolizzare e dileggiare comportamenti che qualsiasi persona di buon senso non troverebbe affatto riprovevoli: “arrampicarsi sui tralicci dell’alta tensione, rischiando anche la vita per il proprio ideale” o scegliere di partecipare ad un campeggio di lotta, piuttosto che sprecare le proprie ferie su qualche affollata spiaggia adriatica.
E per cercare di togliere valore etico a queste scelte, la Muratore giunge a insinuare che chi sale su un traliccio lo fa per le telecamere e, quindi, per mero esibizionismo.  Eppure è abbastanza ovvio che simili forme di protesta servono certo ad attirare l’attenzione dei media, ma non su chi le compie, ma bensì sulle ragioni di chi si oppone, e se prima di scrivere simile sciocchezze, la signora si fosse presa la briga di intervistare quei “pirla” di Luca Abbà e Turi Vaccaro, magari avrebbe imparato qualcosa sull’azione non-violenta.
Chissà, forse, le sono bastate le fondamentali lezioni di Bossi sui metodi gandhiani…
A conferma, peraltro, del povertà dei suoi argomenti, cerca pure di scovare presunte contraddizioni nel comportamento di questi bambini capricciosi; impareggiabile l’accusa di soggiornare in tenda in Valsusa d’estate invece che… “d’inverno, quando nevica”(!). E, per far apparire ancora più tremendi questi campeggiatori arriva a scrivere che giungono “con le pietre e le molotov nel sacco a pelo”(!!).
D’altronde, una giornalista che pretende di scrivere di Tav, confondendo l’Alta velocità con l’Alta tecnologia, si commenta da sola.
Eppure, andando oltre le abusate argomentazioni da sindrome Nimby (termine che però forse non conosce), costei qualche spunto di riflessione sulle ragioni di tanti “No” potrebbe trovarlo con facilità pure in rete. Ad esempio, ha mai sentito dire che a Chiomonte la costruzione del cantiere Tav ha già causato l’abbattimento di oltre 5 mila alberi e la rovina del sito archeologico? Conosce la documentazione sulle conseguenze per la salute delle emissioni elettromagnetiche del sistema di comunicazioni Muos? Casualmente, ha saputo che anche il contestato rigassificatore off-shore nel mare di Livorno comporterà per gli utenti un aumento della bolletta da pagare? Per caso, infine, è mai stata colta dal dubbio che lo stato di polizia e il dramma del carcere esistono non solo per il padrone del giornale su cui scrive?
Ma è probabile che dietro le “verità assolute” di questa dispensatrice di malafede, mai vista sorridere, ci sia un’inconfessabile isteria indotta dal vedere che migliaia di persone continuano a pensare, muoversi e resistere, fuori dal controllo dei partiti e contro i governi della devastazione e del saccheggio ambientale.
Tanto vale allora rassegnarsi, magari tornando ai reportage sul Palio delle galline.
Altra Info

GIANNI DE GENNARO PATRIMONIO DELL’UNESCO?

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Immagine tratta dal sito web Quink

Rilanciamo su questo blog l’articolo di Comidad “GIANNI DE GENNARO PATRIMONIO DELL’UNESCO?” http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=559

La cattiva gestione dei reperti archeologici di Pompei è stata motivo per l’agenzia ONU Unesco di minacciare il ritiro della qualifica di “Patrimonio Culturale dell’Umanità” per questa area. Per fortuna, un miliardario filantropo statunitense, David W. Packard, con la sua fondazione Packard Humanities Institute, è giunto in soccorso delle autorità italiane con progetti modello, come quello per Ercolano, diventando un interlocutore stabile del ministero dei Beni Culturali. La fondazione filantropica ha stabilito la sua sede proprio in Italia, a Pisa, per consentire un impegno continuativo. L’attività filantropica di Packard è stata celebrata con entusiasmo dal quotidiano “Il Sole-24 ore”.
Packard, nel suo slancio filantropico, non si occupa però solo di Beni Culturali, ma anche di politica estera, sostenendo lo sforzo delle neonate democrazie dell’Europa dell’Est. Insomma, è nato un vero e proprio impero filantropico Packard, che si sta affiancando agli imperi, altrettanto benemeriti, di George Soros e di Bill Gates.
David Packard è il figlio di uno dei fondatori del colosso informatico HP. David Packard padre svolse anche la funzione di vicesegretario alla Difesa nell’Amministrazione Nixon. Il fatto che l’industria di Packard fosse uno dei maggiori fornitori della Difesa non impedì dunque al magnate di andare a servire il proprio Paese nella veste di viceministro, poiché, in quella civiltà superiore, neppure si pone la possibilità di un conflitto di interessi. Si potrebbe dire che è roba di quaranta anni fa, tanto più che Packard padre ha fatto improvvisamente mancare i suoi preziosi servigi al mondo nel 1996. Invece la HP, appena nel giugno scorso, ha ottenuto dal Pentagono due contratti miliardari, uno per l’Esercito e l’altro per la Marina, che la terranno impegnata almeno sino al 2018.
Risulta chiaro a chiunque che l’intento umanitario è sia nella produzione di armi che nella gestione delle aree di interesse culturale, poiché entrambe convergono a consolidare la pace e la democrazia; ma, in questo mondo infestato dalla mala pianta dei complottisti, qualcuno potrebbe sospettare che il filantropo Packard usi la sua fondazione come ulteriore strumento di occupazione di un territorio già disseminato di basi militari USA. Tali ingenerosi sospetti coinvolgono anche il ministero dei Beni Culturali, che sarebbe ormai talmente occupato dal lobbying delle ONG filantropiche, da essere diventato un’agenzia di privatizzazione strisciante delle aree archeologiche più prestigiose e turisticamente remunerative. La privatizzazione potrebbe essere presentata come inevitabile se si ponesse l’emergenza di un ritiro della qualifica di Patrimonio Culturale dell’Umanità da parte dell’Unesco.
In questo malaugurato caso però si potrebbe rimpiazzare Pompei riconoscendo il titolo di Patrimonio Culturale dell’Umanità al prefetto Gianni De Gennaro. Non si tratta di un volo pindarico, poiché effettivamente De Gennaro costituisce un’enciclopedia vivente dei meccanismi del potere: dalla polizia, al commissariato per l’emergenza rifiuti, alla direzione dei servizi segreti, poi la nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sino a diventare oggi un collega di Packard. Il Cursus Honorum di De Gennaro si è potuto realizzare in modo assolutamente trasversale agli schieramenti politici ed alle dinamiche dei partiti, a dimostrazione che queste furiose diatribe tra destra e “sinistra” costituiscono un semplice talk-show.
Appena diventato presidente della maggiore industria italiana degli armamenti, Finmeccanica, De Gennaro è stato oggetto degli strali degli sprovveduti, che si sono domandati cosa ci faccia un ex poliziotto, e poi supremo dirigente dei servizi segreti, a capo di un’industria degli armamenti; come se non fosse arcinoto alle cronache che i maggiori piazzisti di armi nel mondo sono proprio i servizi segreti. L’importante è che le cronache rimangano abbastanza generiche e sopravvengano a fatto compiuto, a meno di non voler fare la fine di Ilaria Alpi, eliminata per aver disturbato un affare di armi del SISMI in corso in Somalia. Senza rivangare troppo questi casi incresciosi, si può soltanto concludere che il fatto che il piazzista ora sia addirittura diventato presidente costituisce semplicemente un esempio di sana meritocrazia. Il quotidiano “Il Sole-24 ore” ha infatti celebrato anche la nomina di De Gennaro a presidente di Finmeccanica, osservando che sicuramente gioveranno all’azienda gli storici ed eccellenti rapporti dello stesso De Gennaro con gli Stati Uniti.
Che i rapporti di De Gennaro con gli USA siano ottimi, è provato dal fatto che egli sia l’unico straniero ad essere insignito con la massima onorificenza del Federal Bureau of Investigation. Ecco finalmente uno che potrà parlare con il Pentagono e con tutti i servizi segreti USA in piena familiarità.
I soliti complottisti sospettano persino che De Gennaro avesse a che fare con i servizi segreti ancor prima di diventarne ufficialmente dirigente. Il SISDE fu infatti presente a Genova nel 2001 durante il famigerato G8, diffondendo notizie allarmistiche su manifestanti che avrebbero avuto intenzione di usare i poliziotti come “scudi umani”. Proprio il tipo di notizie utili a creare il clima per il massacro alla scuola Diaz. La informativa SISDE sugli “scudi umani” fu riportata a suo tempo da quel giornale indipendente e imparziale che è “La Repubblica”.
Ma chi tira in ballo argomenti del genere, non ha considerato le sacrosante motivazioni della sentenza che ha scagionato De Gennaro da ogni addebito per i fatti della Diaz. Parrebbe infatti che tutto sia avvenuto alle spalle di De Gennaro, il quale, per eccesso di affabilità e gentilezza d’animo, aveva difficoltà a farsi obbedire e prendere sul serio dai suoi sottoposti. Insomma, non lo pensava nessuno.
Per consolare il meschino di tanta incomprensione, arrivò per lui nel 2008, da parte del Presidente del Consiglio Prodi, la nomina a commissario per l’emergenza rifiuti a Napoli. La nomina fece scandalizzare gli sprovveduti e gli invidiosi del merito altrui, i quali si domandarono cosa c’entrasse De Gennaro con la monnezza. Invece, probabilmente, i rapporti di De Gennaro con la monnezza erano storici. Forse già allora egli si occupava e preoccupava di questioni attinenti agli armamenti ed alle loro ricadute in termini di sostanze tossiche.
Un paio di mesi fa un parlamentare del M5S, tale Roberto Fico, ha proposto che i militari italiani siano ritirati dall’Afghanistan per venire a presidiare il territorio della Campania, in modo da impedire gli sversamenti illegali di rifiuti tossici da parte della camorra. Fa sempre piacere quando questi movimenti nati in odore di estremismo, riconoscono finalmente il ruolo prezioso per la Nazione svolto dalle nostre gloriose Forze Armate.
Evidentemente Fico pensa agli sversamenti legali di scorie attuati dai militari, come quello ripreso in un video dell’ottobre 2008 nella discarica di Chiaiano. Peccato che riprendere video del genere sia sempre più rischioso, poiché con la Legge 123/2008, le discariche sono state proclamate aree di interesse strategico nazionale, e quindi coperte da una fattispecie di segreto militare.
Come quella di Forrest Gump, anche la biografia di Gianni De Gennaro costituisce la luminosa dimostrazione che non esistono cospirazioni o associazioni a delinquere, ma che la vita è tutta un gioco di felici coincidenze. Infatti il caso vuole che faccia parte del gruppo Finmeccanica una delle più importanti aziende specializzate nel prelievo e nello smaltimento di scorie tossiche, cioè l’Ansaldo Nucleare. Le centrali nucleari stanno lì apposta ad insegnarci che economia ed affari sono cose non solo diverse, ma addirittura opposte: più un affare è lucroso, più sarà antieconomico. Infatti il vero e grande business delle centrali nucleari non consiste nel loro funzionamento, bensì nella loro dismissione, nel cosiddetto “decommissioning”. Produrre energia nucleare non rende, mentre fa guadagnare moltissimo gestire la rimozione e lo smaltimento delle scorie radioattive.
Quanto può durare e quanto può costare il decommissioning di una centrale nucleare? La risposta è un segreto, sia segreto di Stato che segreto militare. “Segreto” va inteso nel modo corretto, non nel senso che le cose non si vengano a sapere, ma nel senso che non si deve rendere conto di nulla. Questa impunità legalizzata crea assuefazione nell’opinione pubblica, perciò viene percepita alla fine come innocenza; quindi, anche quando le evidenze sono a disposizione di tutti, si continua a non voler vedere e non voler sapere. Il fatto che De Gennaro sia assurto ai fasti della presidenza di Finmeccanica, conferma quanto già era evidente, e cioè che il rapporto tra questo gruppo industriale ed i servizi segreti è organico: si tratta di due facce della stessa medaglia. I soliti sospettosi potrebbero osservare che l’esistenza di un tale intreccio tra servizi e segreti e Finmeccanica andrebbe a liquidare l’ipotesi che l’attentato del maggio dello scorso anno all’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare potesse essere alla portata dei due imputati attualmente sotto processo a Genova. Anzi, si porrebbero dubbi su tutta la formazione del meccanismo “probatorio”. Tanto più che la Procura di Genova non ha potuto neppure contestare ai due imputati della presunta “Cellula Olga” il reato associativo, poiché l’articolo 416 del Codice Penale indica per questa specie di reato un minimo di tre persone organizzate fra loro.
Ma chi facesse obiezioni del genere, non terrebbe conto del fatto che il terrorismo è una categoria puramente morale, che sospende tutte le leggi della logica, della fisica e della biologia; il terrorismo è un mondo a parte, dove la cattiva intenzione rende possibile ogni cosa.

 
 
Ricordiamo peraltro che De Gennaro è stato pure “special advisor” per il governo italiano del programma di ricostruzione del sistema giudiziario e penitenziario in Afghanistan, comprendente anche la riattivazione e la creazione di nuovi carceri speciali, compresi quelli per le donne.
 

A proposito di Rauti (Isabella), ministeriale “fantasy”

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Isabella Rauti, classe 1962, è stata nominata dal Ministro dell’Interno Angelino Alfano a ricoprire il ruolo di Consigliere del Viminale nella lotta al contrasto al femminicidio.

E’ stato sostenuto dal Ministro che la scelta è stata dettata dalle competenze di Rauti in tema di violenza di genere e pari opportunità.

Sul sito personale di Rauti è possibile consultare il curriculum vitae, un primo passo per verificare la fondatezza delle motivazioni di merito riferite da Alfano: la stragrande maggioranza delle pubblicazioni e delle esperienze di Isabella Rauti sono riconducibili a nomine politiche istituzionali o accademiche (quindi, politiche, poiché a noi non piace l’ipocrisia). In particolare, dal 2003 al 2007 (nel triennio 1994-1997 è nominata Componente della Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, istituita presso la Presidenza del Consiglio) Rauti ricopre il ruolo di consigliera nazionale di Parità presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, fino ad essere scelta come Capo Dipartimento del Ministero per le Pari Opportunità con il governo Berlusconi.

Se eccettuiamo le pubblicazioni istituzionali (solitamente frutto del ruolo ricoperto), le altre, poche, riguardano la contro-rivoluzione vandeana e un maldestro tentativo di accreditare l’emancipazione femminile al Fascismo (durante la sua direzione del Centro Studi Futura, associazione culturale fascista che produrrà nella sua breve vita un solo pamphlet dal titolo “Gli angeli e la rivoluzione. Squadriste, intellettuali, madri, contadine: immagini inedite del fascismo femminile” per le edizioni Settimo Sigillo), oltre al testo “I Paladini della reazione – Il pensiero antirisorgimentale in Italia nella prima metà dell’Ottocento”, sempre per le edizioni Settimo Sigillo.

E’ abbastanza chiaro che nessuna di queste pubblicazioni può valere una cattedra universitaria né tantomeno possono ricoprire alcuna scientificità le case editrici proponenti: le edizioni Settimo Sigillo, ad esempio, sono parte del network editoriale neofascista italiano (tra gli ultimi autori proposti dalla SS – “strano” acronimo della casa editrice – troviamo il terrorista nero Pierluigi Concutelli, assassino del pm Occorsio che indagava su Ordine Nuovo, e responsabile di molte altre nefandezze). I temi trattati – dall’anti-illuminismo alla critica della modernità, dall’anti-femminismo all’anti-egualitarismo –vengono trattati con approssimazione analitica e sono privi di alcun contributo di approfondimento o novità che ne possa giustificare una qualsivoglia attenzione.

Più semplicemente: cosa c’entra questa paccottiglia con le competenze in tema di genere?

Sul piano professionale Rauti è una mediocre intellettuale, mentre al contrario sembra avere un eccezionale successo nei salotti buoni della borghesia di sinistra, oltre che in quelli ben più importanti e blasonati delle più alte istituzioni di Stato.

Una carriera singolare, quella di Rauti, che giovanissima si batte per una restaurazione anti-femminista dentro e fuori l’Msi, come militante del settore femminile del partito e della sua struttura giovanile, fino a fondare – con Flavia Perina, Annalisa Terranova ed altre camerate – la rivistina ciclostilata “Eowyn”, il cui titolo rimanda all’imprescindibile ed unica bibbia teorica delle e dei rautiani dell’epoca, “Il signore degli Anelli”.

La rivista è imbarazzante per la pochezza concettuale in rapporto all’alta ambizione dichiarata di voler muovere battaglia ai contenuti “sessisti” del femminismo egemonico (siamo alla fine degli anni Settanta). Grottesca l’asimmetria tra le copertine inneggianti a muse medioeval-rinascimentali, guerriere di grandi castelli a fianco di virili cavalieri, e i contenuti, per lo più riguardanti la moda, il senso del pudore oltraggiato dalle femministe impudiche, la lotta all’aborto, al divorzio, alla contraccezione (eh si…).

Nessuno e nessuna, dentro e fuori l’Msi, dentro e fuori i movimenti neo-fascisti, ha mai notato o letto, probabilmente, quella rivista. Fino ad un fortunato giorno del mese di marzo del 1981, quando ad accorgersi dell’inutile foglietto è addirittura “Noi Donne”, rivista femminil-femminista del Pci, grazie all’articolone di Silvia Neonato dal titolo “Le guerriere, le vestali e le altre”.

Dettagli? Neanche per idea.

Le femministe del piccì decidono probabilmente che le rautiane (da Pino Rauti, padre vero di Isabella e putativo politico del collettivo di Eowyn) servono alla causa della “sorellanza”, per fare breccia nella destra eversiva dell’epoca, stimolandone, per così dire, l’emersione di un riformismo che ancora oggi stenta a vedersi (non possiamo mica prendere sul serio Futuro e Libertà).

Cosa resta oggi di quella antica, e ancora oggi percorsa, pratica politica dell’utilizzo delle contraddizioni altrui fatta da sinistra?

Resta Rauti e il suo opportunismo politico e personale, fatto di oblique relazioni destra-sinistra nei tanto vituperati salotti buoni del femminismo mainstream che l’hanno aiutata a crescere politicamente e ad avere ed ottenere ascolto, perché presentata da donne autorevoli, di specchiato passato nelle lotte per la liberazione delle donne; grazie a queste remunerative relazioni e ai suoi passaggi istituzionali crescono le sue “competenze” in tema di Pari Opportunità, un concetto che a Rauti dà l’orticaria fin da adolescente, quando da fascista lottava contro l’eguaglianza tra i sessi e contro la “guerra femminista tra i sessi”, dimostrando di meritare 2 in filosofia e 9 da politicante, poiché è grazie a quella stessa guerra tra i sessi, “femminista e quindi sessista”!, che oggi Rauti ha gli incarichi che ricopre, pur mostrando di non aver capito veramente niente del femminismo e delle sue istanze.

Tra l’altro, com’è noto, la sua lotta politica è di difesa del ruolo materno e della differenza sessuale biologica: notevole pensare che colei che dovrebbe “consigliare” contro le stereotipie discriminanti di genere, consideri le differenze biologiche tra i sessi fondative dei ruoli di genere…Invece di leggere quel fascista di Evola, farebbe meglio a capire di cosa stiamo parlando quando ci riferiamo a sesso e genere, poiché è proprio l’idea tradizionalista e bigotta di Rauti a confermare, riprodurre e moltiplicare atteggiamenti violenti e sessisti verso chi eccede la norma biologica di divisione sessuale.

Ma Rauti ha una benché minima idea di cosa stiamo parlando, o conosce (e continua a leggere) gli unici rassicuranti tre autori fascisti fin dall’adolescenza?

Se queste sono le competenze…!

Dunque è grazie all’intelligenza politica (…) di quelle vecchie volpi del piccì, quelle che la sanno lunga, quelle che sanno “manovrare”, che oggi Rauti può permettersi, impunita, di inquinare costantemente la lotta per la liberazione delle donne promuovendo infami azioni di depistaggio quali il “Manifesto del nuovo femminismo”, una raccolta di firme contro l’aborto promossa dal Movimento per la Vita, la cui promotrice è Olimpia Tarzia, una signora che a Roma purtroppo conoscono bene.

E’ ancora grazie a costoro che Flavia Perina è accolta in nome della sorellanza sui palchi delle “Se non ora quando?”, senza che nessuna a sinistra provi vergogna o imbarazzo o esiga da lei i nomi degli assassini di Walter Rossi, dato che lei non può non sapere.

E’ ancora grazie a costoro se la prima prova politica di superamento dei posizionamenti di destra e sinistra possiamo accreditarla storicamente ad opera di alcune donne del maggior partito di sinistra dello schieramento istituzionale.

A sinistra i risultati di questa memorabile! operazione politica stanno a zero, mentre, a quanto pare, ancora oggi alle stesse signore e alle proprie figlie, biologiche e non, piace insistere negli stessi errori del passato.

Il femminismo antifascista, al contrario, ricambia ogni inimicizia verso Isabella Rauti, diffidandola dall’occuparsi di questioni di cui poco capisce e nulla condivide.

Alcune compagne femministe antifasciste