Come è risaputo, fin dal suo sorgere, il movimento anarchico – in tutte le sue tendenze – ha prestato attenzione ai problemi e ai rischi d’autoritarismo connessi al modo d’associarsi e alle forme organizzative del proletariato rivoluzionario.
Un’attenzione, peraltro, che ha contraddistinto la separazione con i marxisti all’Interno dell’Internazionale e la nascita dell’Internazionale anti-autoritaria.
Per cui, nessuna componente anarchica ha mai sottovalutato questa criticità, semmai sono state, rispettivamente, pensate e praticate soluzioni diverse fra quanti – individualisti compresi – ritenevano importante e necessario trovare il modo di trovare intese e coordinare forze accomunate dall’obiettivo dell’anarchia, ferma restando la coerenza fra mezzi e fini, ossia una società in cui il dominio e la servitù fossero soppiantati dall’autogestione.
All’interno di questo percorso storico, la principale diversificazione fu quella indicata, impropriamente, fra “organizzatori” e “antiorganizzatori” che, più correttamente, andrebbe definita tra i favorevoli e i contrari all’organizzazione anarchica “specifica”. Infatti, i cosiddetti antiorganizzatori non erano per lo più contrari ad ogni ipotesi organizzativa, ma avversavano l’organizzazione “politica” anarchica, accettando e partecipando invece a strutture di classe (leghe, sindacati, camere del lavoro…), anche se non-rivoluzionarie, così come a scioperi ed agitazioni di piazza, fra “lotta umana e guerra di classe”.
In alcuni casi, troviamo pure degli anarchici “antiorganizzatori” dirigenti del sindacalismo rivoluzionario o d’azione diretta (come, ad esempio, Armando Borghi, segretario dell’USI), così come degli “anarco-individualisti” hanno fatto parte di strutture non libertarie o persino paramilitari (basti pensare gli Arditi del Popolo).
In epoca contemporanea, ereditando anche questi precedenti storici, nel movimento si sono andate affermando – e contrapponendo – la tendenza “federalista” e quella “informale”, indicate pure come “di sintesi” e “di affinità”.
Secondo il metodo “federalista”, l’organizzazione definita, sulla base di un programma e di un patto associativo, attraverso il metodo decisionale collettivo, eviterebbe il formarsi di posizioni di potere, individuali o “di corrente”, nonché il sorgere di figure “leader” o di dinamiche gerarchiche, magari sotto-traccia.
Secondo, invece, la formula della “informalità”, proprio il carattere temporaneo, ristretto e non-rigido dell’aggregarsi fra individui, “affini” per sentire e propensione all’agire immediato, impedirebbe involuzioni autoritarie e l’affermazione personalistica di ruoli dominanti o, comunque, influenti più di altri.
Paradossalmente, le due tendenze ritengono le rispettive prassi come “risolutive” e, specularmente, intravedono nell’altra l’ombra dell’autoritarismo che si vorrebbe scongiurare, stigmatizzando da un lato lo spontaneismo e dall’altro la burocratizzazione.
Riguardo l’approccio “federalista”, va riconosciuto che la ricerca della “sintesi” fra posizioni diverse, nel rispetto della libertà degli individui e dell’autonomia dei gruppi che non si riconoscono nelle decisioni concordate, è un metodo senz’altro libertario (impensabile in un partito comunista o democratico), ma d’altro canto il rischio di un eccessivo formalismo permane, favorendo la deriva di incarichi – sulla carta temporanei – che assumono un carattere “dirigente” e la marginalizzazione delle posizioni critiche.
Di contro, neppure l’opzione “informale” mette al riparo dall’affermarsi di un agire subitaneo non abbastanza discusso e condiviso, così’ come non preclude l’emergere di individualità – anche involontariamente – “carismatiche” o comunque più “autorevoli” di altre.
Il problema a monte, infatti, anche all’interno di gruppi radicalmente avversi all’autoritarismo, è quello che M. Foucault indicava come la “microfisica del potere”, ossia il riprodursi di relazioni, ruoli e comportamenti non-paritari che pure negli ambiti antagonisti al potere dominante – non escluso il movimento anarchico – si vengono a creare in base a “capacità” dei singoli, favorendo tendenze alla delega e comportamenti interpersonali tutt’altro che libertari.
Un tempo, contava e pesava soprattutto il grado d’istruzione, la cosiddetta “arte oratoria” o il coraggio dimostrato nei frangenti più difficili, per non parlare dell’essere uomo piuttosto che donna, contraddizione presente nell’intero movimento d’emancipazione sociale.
Ancora oggi succede che un compagno o una compagna, stimati o ritenuti più “esperti” per anzianità anagrafica o di militanza, siano investiti – loro malgrado – di ruoli “guida”, magari perchè più “inclini” a scrivere, parlare in pubblico, interloquire con posizioni differenti, coordinare, assumersi responsabilità, mettere a disposizione conoscenze tecniche…
Talvolta, aldilà degli intenti degli interessati, tale ruolo può essere persino indotto da fattori che, in contesti anarchici, dovrebbero risultare ininfluenti come, ad esempio, l’essere riconosciuti “capi” dalle controparti (istituzioni, stampa, altre organizzazioni politiche, organi repressivi) e il venire perseguitati come tali.
Dunque, “laicamente”, si dovrebbe riconoscere l’inesistenza di soluzioni organizzative o anti-organizzative a prova d’autoritarismo; così come non esistono forme associative “impermeabili” all’infiltrazione o meno esposte alla repressione: purtroppo, nessuna, alla prova dei fatti, si è rivelata indenne, fossero legali o clandestine, orizzontali o verticistiche, anarchiche o comuniste. Persino le relazioni sentimentali non ne sono indenni. Per questo, forse il rischio più rilevante è il ritenere che la propria “formula” sia al riparo da tali insidie, sottovalutando come gli “apparati” sanno seminare e sfruttare le nostre divisioni.
Da sempre, secondo fasi, situazioni, contingenze e propensioni si danno e si sperimentano modalità auto-organizzative non univoche, anche in considerazione dei contesti territoriali e culturali, diversificate in rapporto al tipo d’azione svolta e alle soggettività coinvolte.
D’altronde, in passato, anarchici e anarchiche che tutt’ora sono ritenuti dei riferimenti teorici importanti, nel corso della loro vita e della loro militanza hanno abbracciato convinzioni e attraversato forme organizzative diverse (basti pensare a Malatesta), ferma restando l’invariante prospettiva dell’anarchia.
Gli stessi rapporti di forza – non va dimenticato – interagiscono con le scelte inerenti forme di lotta e d’organizzazione: aldilà, di facili schematismi e riproposizioni d’antan, ogni tempo sociale e il “campo di battaglia” comportano l’adeguamento delle modalità di conflitto.
Quello che dunque risulta ancora cruciale, qualunque sia il modo di associarsi, è la consapevolezza individuale che non basta sapersi anarchici e rivoluzionari, per eliminare l’endemico autoritarismo latente nelle relazioni umane, avendo la capacità e l’intelligenza di fare “un passo indietro” quando il nostro ruolo diventa un ostacolo per l’autodeterminazione di chi abbiamo accanto.
Allo stesso tempo, nel momento in cui privilegiamo le idee e le volontà rispetto ai dogmi, sarebbe auspicabile rispettare i diversi binari che, sul piano dell’organizzarsi, vengono percorsi, quali tentativi – ognuno con i propri limiti e le proprie potenzialità – che quando hanno saputo convivere e convergere hanno fatto la fortuna dell’anarchismo.
Dragut