Politici, penalisti e intellettuali democratici celebrano quest’anno i 250 anni dalla prima edizione del trattato Dei delitti e delle pene, dove Cesare Beccaria aveva con forza sostenuto che «non vi è libertà ogni qual volta le Leggi permettono che in alcuni eventi cessi di essere Persona, e diventi cosa».
L’illustre autore non poteva immaginare che, dopo due secoli e mezzo, la pena di morte e la tortura oggetto del suo J’accuse appartengono ancora alla realtà di una società che si ritiene civile, evoluta e progressista.
Infatti, la storia della tortura continua ad aggiornarsi, attraverso i secoli, i continenti e le diverse forme di dominio, con un medesimo intento punitivo che prescinde ogni altra considerazione sul rispetto dei diritti umani che, a parole, tutti dicono di voler salvaguardare.
In realtà, dopo la pubblicazione del Dei delitti e delle pene, subito messo all’Indice dalla Chiesa di Roma, in molti accusarono di eccessivo umanitarismo (oggi si direbbe buonismo..) Beccaria, come fece Immanuel Kant che giunse a sostenere che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa» perché altrimenti «il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». D’altronde secondo Kant, «nel momento in cui la legge non può fondarsi sul bene, quale principio superiore, essa non deve nemmeno trovare la sanzione del meglio, quale volontà del giusto» (G.Deleuze). Nonostante i risibili tentativi di chi oggi cerca di rivalutarlo come un filosofo “anarchico”, Kant in questo modo si dimostrava invece preoccupato dal potenziale sovversivo insito nelle tesi di Beccaria che negava alle istituzioni e alla comunità il diritto d’arrogarsi alcun potere che non sia loro direttamente trasferito dalla volontà dei singoli individui concreti.
Analoga incapacità, peraltro, si riscontra ancora in questo secolo al punto che il ricorso sistematico alla tortura nei confronti dei sospetti terroristi, negli Usa è stato ritenuto un mezzo giustificato dal fine persino da settori ed esponenti liberal, quali ad esempio Alan Dershowitz, esimio professore di legge ad Harvard, favorevole alla sua formale legalizzazione, riecheggiando la cosiddetta “eccezione” di Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica.
Così, pur in contrasto con tutte le convenzioni e i trattati internazionali, il presente e persino il futuro continuano a non liberarsi dal passato, un passato che ci riporta, senza soluzione di continuità, per vincere, l’uno il tradimento e l’altra l’eresia, sia lo Stato che la Chiesa si sono avvalsi infatti di tale metodo basato sul terrore.
Nel 1252, fu Innocenzo IV, nella bolla papale Ad extirpanda a introdurre la tortura come metodo per la ricerca della verità; d’altronde, l’idea stessa di “castigo divino” implicava il principio per il quale, attraverso la sofferenza, era possibile cancellare la colpa riscattandola attraverso la punizione inflitta, sacralizzando così la coincidenza di significato tra dolore e pena e, conseguentemente, benedicendo la figura del boia e dei patimenti impartiti dall’Inquisizione.
Questa tetra immagine ci permette di aprire una riflessione sull’istituzione e l’idea stessa di Giustizia, secondo quanto suggerisce Rafael Sánchez Ferlosio che identifica «i giudici, l’avvocato difensore e il pubblico ministero come il personale di servizio del boia».
Un’idea da rivoltare in maniera radicale, se si vuole comprenderne realmente l’essenza o, come scrive Ferlosio, è necessario percorrere a ritroso la strada così come ci appare, dissimulata dalla morale dominante e dall’assolutismo legalitario.
Considerata infatti l’evidenza per cui la Giustizia continua ad essere soprattutto sinonimo di vendetta, vedendo la priorità del castigare prevalere persino su quella del giudicare, per giungere alla somministrazione del dolore a dei corpi (segregazione, isolamento, tortura, stupro, pena capitale…) e non per provvedere alla riparazione reale dell’ingiustizia, al soccorso della vittima e alla risoluzione preventiva delle cause del delitto. Non appare perciò azzardato condividere l’interrogativo di Ferlosio: «Non sarà dunque, in realtà, il boia il più antico dei funzionari, intorno al quale hanno poi via via preso forma tutti gli altri tramiti anteposti, coi loro corrispondenti funzionari, al cruento proposito della punizione?»
Se nei regimi dittatoriali questo aspetto totalitario appare intrinseco alle rispettive ideologie liberticide, nelle democrazie appare dissimulato e coperto dalla ragione “superiore”, a tutela di una sicurezza collettiva minacciata da presunti nemici esterni e interni. Per cui, anche negli Stati liberali, il confine tra azione politica legale e abuso criminale tende ad annullarsi con la complicità di milioni di “spettatori consenzienti” che ritengono come normale e persino plaudono il lavoro dei torturatori, assieme all’esistenza dei campi di concentramento, alle violenze sessuali autorizzate, alla soppressione delle libertà formali, nonché agli omicidi mirati e alle attività terroristiche messe in atto dagli apparati statali.
A titolo d’esempio, basta ricordare che lo Stato italiano, presentato ogni giorno come garante costituzionale della libertà e della legalità, dimostra il proprio livello di civiltà giuridica, a tutt’oggi non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale e non ha abolito l’ergastolo, dopo essersi presto assolto per le torture e gli stupri perpetrati – e fotografati – dai parà italiani in Somalia durante la missione Restore Hope (1992-’94).
Un presente che se da un lato può far apparire Beccaria un simpatico utopista, dall’altro conferma gli sviluppi della sua critica che sono stati ritrovati alcuni anni fa sotto forma di suoi appunti in calce ad una copia dei suoi scritti.
In queste annotazioni Beccaria faceva intuire l’intenzione di rivedere la sua opera, giungendo ad una critica radicale e persino con aspetti libertari della pena e del controllo sociale sugli individui, mettendo in discussione il diritto delle istituzioni di limitare o addirittura sopprimere la vita, per il semplice fatto che questo diritto non può venir loro trasferito dagli individui.
Da qui, nella consapevolezza che non esiste libertà nella scelta di farsi schiavizzare, tanto meno è ammissibile che un individuo si sottometta all’arbitrio dello Stato nel disporre della sua vita e della sua morte.
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