LA TRAGEDIA DELL’AVANSPETTACOLO

 

 

Vorrei partire dall’aporia che Giorgio Agamben individua nella analisi della Filosofia dell’hitlerismo di Lévinas[1] per riflettere su quanto è accaduto a Firenze, pochi giorni fa.

«L’eredità biologica è un destino – mostriamo di essere all’altezza di questo destino, in quanto consideriamo l’eredità biologica come un compito che ci è stato assegnato e che dobbiamo adempiere?»[2]

Agamben, a parziale commento del precedente passo del biologo e ideologo nazista Verschuer, sostiene che l’aporia del nazionalsocialismo risieda nella folle volontà di trasformare le condizioni fattuali dell’essere umano in un compito storico: la biologia è destino, per l’appunto.

Tale dispositivo biopolitico – l’assunzione della stessa vita biologica come compito politico supremo – è oggi superato? L’autore risponde negativamente alla domanda: «è probabile che il mondo in cui viviamo non sia ancora uscito da questa aporia».

Parlare di destino biologico di fronte all’omicidio di due lavoratori originari del Senegal può forse apparire fuorviante, ma è indubbio che allo stragista Casseri il colore nero della pelle – ricercata come merce di lusso in quel mercato ricco di tanti colori e profumi diversi – deve essere apparsa come la più odiosa delle eccezioni innaturali del suprematismo bianco al quale si onorava di appartenere.  Sebbene il militante fascista differisse per una schietta e tradizionale forma teorica dalle posizioni mimetiche di CasaPound, appare sempre più evidente la sua relazione politica con il partitino di Via Napoleone III.

Complicità, zone grigie, ambiguità e obliquità fanno da sfondo a una strage che vede imputate e imputati niente affatto contigui all’universo neofascista italiano, ma che continuano a gettare fango nel solco che divide la teoria fascista dalle analisi antifasciste.

Sono di poca importanza i nomi, come in uno schedario facile da dimenticare (passano i governi come passano i volti, una longeva notorietà è un traguardo che pochi-e possono vantare), mentre è essenziale rendere conto di dinamiche e appostamenti politici che ogni giorno contribuiscono a cucinare la minestra nella quale organizzazioni di destra radicale affondano il cucchiaio per nutrirsi e pascere sempre più grasse.

Da compagna e da femminista ho disertato la piazza delle nuove nazionaliste di SeNonOraQuando? principalmente perché ritenevo perfino eccedente il legame autoalimentante tra le parole d’ordine e la partecipazione da protagoniste di alcune fasciste di lunga carriera, in particolare del partito FLI.

Flavia Perina, una tra le promotrici di SNOQ e delle comizianti di piazza in febbraio e nel luglio senese, è stata tra le ideatrici, sul finire degli anni Settanta, della rivista fascista femminile Eowyn. Ha condiviso, assieme a Isabella Rauti (assente polemicamente al corteo, e mai tanto rimpianta dalla portavoce del Pd Concita De Gregorio), Annalisa Terranova e altre camerate, l’impegno militante e intellettuale di revisionismo storico per una lettura anti-femminista delle fasciste di Mussolini e della Rsi. L’obiettivo critico delle Eowyn e del Centro Studi Futura mirava a delineare la compiutezza del destino femminile grazie al regime fascista, l’unico ad aver saputo coniugare “la «donna muliebre», fiera della sua specificità ma capace anche di far propria un’etica dai tratti «virili», fondata su rigore, stoicismo, controllo di sé, eroismo e, ancora, «la donna cittadina», «piena di energia morale, d’orgoglio per la patria, di

disprezzo del pericolo, di culto dell’onore, dotata di una spiccata personalità, non chiusa nella casa, non affogata nella famiglia, che sappia sentire, in perfetta sincronia, all’insegna della solidarietà nazionale, l’amor di patria e l’amore della famiglia»”[3].

L’amor di patria e della famiglia erano senza dubbio le uniche preoccupazioni delle SNOQ, così come il patto generazionale tra figlie-madri-nonne-sorelle, il tutto all’insegna della riproduzione per la Patria, mentre invisibili gridavano dalle parole assenti le migranti e le immigrate – ovvero quelle che vengono e quelle che restano – assediate dentro mura spesse di luoghi concentrazionari chiamati Cie, vettori di razzismo di Stato difesi e sostenuti da improbabili alternative di governo. Dicevamo delle complicità e dei luoghi obliqui.

Ma non credo che il problema sia facilmente di chi quelle piazze e quei contenuti ha costruito, in un tentativo mal riuscito di lobbismo mercificato e di mercificazione del corpo delle donne come corpo della patria, per suggellare una nuova sintesi politica che persino le manovre pari-opportuniste di Monti sono riuscite a sprecare.

Si poteva e si doveva disertare quella piazza nazional-colonialista?

«Dovunque regni lo spettacolo, le uniche forze organizzate sono quelle che vogliono lo spettacolo. Perciò nessuna può essere nemica di ciò che esiste, né trasgredire l’omertà che investe tutto»[4].

L’appuntamento mediatico è stato costruito così accuratamente che molte hanno scelto di comprare il ruolo di “presenti criticamente”, così “sinistramente” abbandonato e vuoto, vendendo in cambio – di fatto – l’ennesima accettazione di un patto sociale di sdoganamento politico di fasciste amiche degli stragisti di ieri e di oggi.

In quell’ennesimo, brutto Spettacolo da varietà decadente gli ombrelli rossi sono sembrati solo abiti di scena, e la loro trasgressione – qualora l’avessero avuta – è parsa la medesima espressa dalla cocaina ben dosata da Ferida e Valenti sulle macerie fumanti della Repubblica Sociale.

Sono i contesti o i concetti a fare di un atto una rivolta? O occorrono abbinamenti un po’ più complicati di un ombrello quando non piove?

La minestra era indigesta, soprattutto perché in un siffatto mare il fascismo può calare le sue lenze e abilmente intossicarne le acque in vista di una ricca pescata.

Ma non è tutto. Qual è la portata di una resa semantica al nemico? Si è riuscite a comprendere la posta in gioco, in queste occasioni?

Lo Spettacolo va avanti, anche grazie al ruolo di comparsa che molte hanno scelto di giocare, in quelle occasioni, per paura di non esistere non essendo state presenti.

Io non mi preoccuperei troppo di questo, perché vive e presenti non lo sono state comunque. Non lo sono state nell’impedire con la loro presenza che le fasciste comiziassero dai palchi, né che lo facessero le altre con parole d’ordine biopolitiche, volte al controllo dei corpi delle donne e non certo alla loro liberazione.

Adesso abbiamo assistito ai cortei antirazzisti con bandiere e presenze di Stato che con una mano danno (la loro pelosa solidarietà e la cittadinanza ai “clandestini” ormai morti) e con l’altra tolgono (segregando corpi di donne e uomini migranti nei Cie).

Cortei schizoidi con parole d’ordine vuote come i risparmi delle lavoratrici e dei lavoratori, anche di quelli che ieri erano “abusivi”, oggi da morti ipocritamente “colleghi”.

Continua il flusso mediatico dello Spettacolo, che «isola sempre da ciò che mostra la cornice, il passato, le intenzioni, le conseguenze. Quindi è totalmente illogico. Dato che nessuno può più contraddirlo, lo spettacolo ha il diritto di contraddirsi da sé, di rettificare il suo passato. L’atteggiamento altero dei suoi servi quando devono portare a conoscenza una nuova versione, e forse ancor più falsa, di certi fatti, consiste nel correggere brutalmente l’ignoranza e le interpretazioni sbagliate attribuite al pubblico, mentre erano essi stessi che si affrettavano il giorno prima a diffondere quell’errore, con la loro abituale sicurezza. Così, l’insegnamento dello spettacolo e l’ignoranza degli spettatori passano indebitamente per fattori antagonistici, mentre in realtà si generano a vicenda»[5].

Solidarietà a tutte le vittime del razzismo.

 

Irène Hamoir.

 

[1] G. Agamben, Heidegger e il nazismo in La Potenza del Pensiero. Saggi  e conferenze, Ed. Biblioteca Neri Pozza 2010, pp. 329-40.

[2] O. Verschuer, Rassenhygiene als Wissenschaft und staatsaufgabe, Frankfurt am Main, Bechhold, 1943, p.8.

[3] Centro Studi Futura, Gli angeli e la rivoluzione. Squadriste, intellettuali, madri, contadine: immagini inedite del fascismo femminile, Ed. Settimo Sigillo, 1991, pp. 8-9.

[4] G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Ed. SugarCo, 1990, pag. 27.

[5] Ivi, pp. 32-33.