NESSUNA ECCEZIONE ALLO STATO DI ECCEZIONE

Arsenico. Utopie e ammutinamenti

 

 

Want to buy some illusions

Slightly used, second-hand?

They had a touch of paradise,

A spell you can’t explain,

For in this crazy paradise

You are in love with pain.

(Friedrich Hollaender, 1948; Marlene Dietrich, A Foreign Affair, 1948)

 

 

A seguito della modifica costituzionale francese allo stato di emergenza, chiesta da Hollande dopo gli attentati del novembre 2015, abbiamo ascoltato e letto accorate preoccupazioni – non solo istituzionali – circa il rischio di sospensione della democrazia.

Com’è noto, tale modifica costituzionale può ordinare la limitazione delle libertà formali personali per un periodo di tempo di tre mesi; precedentemente la costituzione francese prevedeva la medesima norma per una durata complessiva di 12 giorni.

Ben lungi dall’essere una norma golpista frettolosamente introdotta dal presidente socialista, l’attuale decisione di Hollande si colloca perfettamente all’interno della tradizione repubblicana poiché, lo abbiamo appena visto, lo stato di emergenza è costitutivamente regola costituzionale, non una sua eccedenza o eccezione.

Ciò che scandalizza dunque lorsignori non è la qualità della norma quanto la sua “quantità”: si preferirebbe cioè mantenere una “giusta” quantità di violenza, di repressione, di autoritarismo, di forza, di ingiustizia sociale, di ipocrisia. Poi, a seguito della spettacolarità delle azioni terroristiche parigine, la giusta distanza e misura aritmetica della politica del benpensantismo di sinistra sono cadute a pezzi come i vetri del Bataclan.

Oltre all’allungamento dello stato di emergenza nel paese da due a 12 settimane, lo Stato in emergenza ha deciso di predisporre l’ennesimo bombardamento di Raqqa e l’intensificazione della guerra in Siria, tentando di porsi a capo di una sgarrupata armata di paesi europei Nato nell’impresa già avviata. Tutto questo cibo per gli occhi sarà accuratamente divulgato all’opinione pubblica, come ulteriore approfondimento della guerra interna, con l’inutile farsa del Cop21 a introdurre l’entrata in scena dello Stato “tutto d’un pezzo ma senza perdere la delicatezza”.

A interessarsi del “rischio” di assottigliamento dello stato di diritto è anche la star americana Judith Butler, preoccupata che “lo stato di emergenza dissolva la distinzione tra Stato ed esercito”[1].

Esiste davvero una distinzione tra un presupposto stato di diritto e il suo braccio armato, tra il legislatore e il suo celebre dispositivo di monopolio della violenza?

In una conferenza al Collège international de philosophie di Parigi dell’ormai lontano 1996, Giorgio Agamben si chiedeva se “dimoriamo ancora senza rendercene conto sui margini del nazismo”[2]. Basta leggere Agamben per comprendere quanta comoda e compatibile banalità vi sia nelle parole di Butler, e nella attuale interpretazione riformista della governance foucaultiana di Toni Negri, messa fortemente in discussione da intellettuali a lui vicini come, ad esempio, Maurizio Lazzarato[3].

Agamben, com’è noto, ri-definisce il foucaultiano esercizio moderno del potere come potere sulla vita[4]: l’uomo cessa di essere ciò che era per Aristotele, “un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica”[5], per divenire “un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente”[6]. L’intento è dimostrare che la disposizione delle tecniche di bio-potere emerge non tanto da un arte del governare, quanto da una teoria del potere sovrano, rielaborando criticamente la definizione schmittiana di sovrano, inteso come “colui che decide della situazione di eccezione”[7]. La sovranità non è dunque la fonte esclusiva della produzione di leggi, ma la capacità di disporre lo spazio di esclusione all’interno stesso dell’ordine giuridico:

 

«Riprendendo un suggerimento di J. L. Nancy, chiamiamo bando (dall’antico termine germanico che designa tanto l’esclusione dalla comunità che il comando e l’insegna del sovrano) questa potenza (nel senso proprio della dunamys aristotelica, che é sempre anche dunamys me energhein, potenza di non passare all’atto) della legge di mantenersi nella propria privazione, di applicarsi disapplicandosi. La relazione di eccezione é una relazione di bando»[8].

 

La determinazione politico-filosofica di sovranità è distintamente affrontata in due inconciliabili versioni, quella butleriana che definisce lo Stato come origine della norma legale e principio di una rigorosa partizione tra violenza e diritto; quella agambeniana che colloca lo Stato a principio di una decisione sulla situazione d’eccezione, nella quale è impossibile distinguere il fatto e il diritto.

Hollande agisce in una relazione di bando, e non da ora, men che meno unico nella fortezza Europa. Viviamo da sempre immersi in una relazione di bando poiché laddove esiste legge vi è chi ne è incluso e chi non lo è, con buona pace delle retoriche contrattualiste democratiche. E’ la legge a costruire spazi giuridici e non lo abbiamo inventato noi, ma chi la legge dispone.

E se il corpo politico è “affetto” da simile pre-disposizione, il suo applicarsi disapplicandosi non è eccezione, ma regola assiomatica.

Siamo banditi, quando la porta chiusa dietro di noi è quella di un Cie-Cpt, di un lager africano, di un campo-nomadi delimitato da torri carcerarie, o quella dei recinti di filo spinato, in Val di Susa come in Serbia o Ungheria. In quale “condizione democratica” ci troviamo se non in quella di banditi da territori dello Stato, quando veniamo catturati da dispositivi amministrativi definiti languidamente “fogli di via”?

A dispositivi di cattura corrisponderanno azioni di evasione, questo è già il presente.

Non perderemo tempo con chi vuol giocare alle guardie – non saremo più o meno ladri per questo, ma per nostra libera scelta – e di certo non ci interessa arruolarci nei passatempi dell’idiota democratico.

Se a Parigi, nel lampo di dolore, si è avuto solo un breve, intenso momento di deflagrazione di realtà dall’incubo quotidiano contemporaneo, esso si è subito assopito nella decerebrante e “social” opposizione tra gli allegri della Ville Lumière e gli oscuri del Daesh, in una recita hollywoodiana (in)degna di Star Wars.

Nell’odierno esercizio di esclusione, mentre lo Stato limita l’organizzazione dei corpi nello spazio-tempo, politicizza i loro recinti e carceri, arruolando il qualunquismo nel parossismo della merce, reificando ciò che è già reificato, spettacolarizzando lo spettacolo.

Continuate dunque ad andare ai bistrot a bere champagne, come usava suggerire Marie Antoniette! Le merci devono girare, le bombe cadere, gli uomini e le donne consumare.

Consumare consumandosi, tra un attentato urbano e quello rituale quotidiano alla propria vita.

Eppure, tra le crepe di queste macerie che chiamiamo società, c’è chi osserva i punti deboli e le vie di fuga, disegna portolani mobili, allestendo in fretta e furia attracchi d’emergenza, illuminando fari abbandonati, abbordando in alto mare.

 

 

[1] www.effimera.org/il-lutto-diventa-legge-di-judith-butler/

[2] G. Agamben, Heidegger e il nazismo, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza 2005. Si veda anche http://aranea.noblogs.org/la-tragedia-dell’avanspettacolo/

[3] M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, DeriveApprodi, 2013. Si veda in particolare pp. 5-20

[4] Cfr. M. Foucault, La volonté de savoir, Paris 1976; secondo l’edizione italiana, La volontà di sapere, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Milano 2013, p. 123 (ed. fr. p. 183).

[5] M. Foucault, cit. p. 127 trad. it. p. 188.

[6] Ibid.

[7] «Souvëran ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet», C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, trad. it. a cura di P. Schiera, Bologna 1972, p. 33.

[8] G. Agamben, Homo sacer I, Einaudi, 2005, p. 34.

 

Grecia domenica 5 Luglio 2015: andare a votare? Col cazzo!!

col cazzoNessuna guerra tra i popoli, nessuna pace tra le classi!

Domenica 5 Luglio 2015 i Greci voteranno un referendum indetto dal governo Tsipras – una coalizione comprendente Syriza, Anel e altri indipendenti – in cui si valuterà se il popolo greco ha intenzione di sottostare ai diktat di austerità dell’Unione Europea-Banca Centrale Europea-Fondo Monetario Internazionale.

Il governo greco, come tutti i governi, ricopre il ruolo di preservare e difendere un sistema fondato sul Capitale e sullo Stato, ovvero un modello socio-economico che, con lo sviluppo della tecnologia, ha via via affinato scientificamente il modello di produzione capitalistico attuale fino a raggiungere traguardi non solo di “progresso” ma anche di sfruttamento, crisi e guerre, le quali devastano l’ambiente circostante e gli individui che subiscono appieno tale modello economico.

L’ultima cosa che vorrebbero sia il governo greco attuale che gli investitori stranieri presenti nel territorio ellenico, è quello di veder destabilizzare una situazione interna che sta via via diventando instabile.

La “carta vincente” per mantenere lo status quo corrente è il referendum.

Il popolo greco, chiamato alle urne questa domenica, dovrà decidere se accettare o meno i diktat imposti da un sistema socio-economico odierno. Di conseguenza il referendum è la classica paraculata per mezzo del quale il governo greco, indipendentemente dal risultato che otterrà, si potrà fregiare del risultato di aver fatto decidere al suo popolo. E ciò, all’estero, viene presentata come una sfida alla Troika, mentre all’interno del paese continueranno ad entrare i capitali esteri (Cinesi e Russi in primis) e continuare la politica di  repressione poliziesca.

Partendo da tutto questo, affermiamo che non solo ci opponiamo contro questa propaganda elettorale portata avanti da coloro che spacciano tali conquiste come rivoluzionarie, ma sosteniamo a gran voce quelle realtà votate all’emancipazione del lavoro salariato e al sovvertimento dello Stato presenti sul territorio greco.

Noi siamo fiduciosi in quei greci che credono in una creazione di modelli socio-economici anticapitalisti!

Opponiamoci alla trasformazione del lavoro fatto dai/dalle compagn* in una parodia social-democratica per la ristrutturazione del debito!

 Anarchici veneti

 

RAZZISMO DI STATO E RAZZISMO POPOLARE

Come si suol dire “a bocce ferme”, qualche considerazione inattuale sull’aumento del consenso razzista alla Lega Nord, vale la pena spenderla.

Razzismo di Stato
I risultati numerici delle ultime regionali dicono che la Lega Nord è stato l’unico partito ad aumentare i propri voti: +402.584 rispetto a quelli delle elezioni politiche (2013) e +256.803 rispetto alle Europee. Altro dato: il partito di Salvini ha riportato buone affermazioni soprattutto nelle regioni “rosse”, aree in cui in precedenza era assai meno forte. In particolare, dal 2014 a oggi i consensi in Toscana e Umbria appaiono triplicati, nelle Marche raddoppiati. L’unica contrazione rispetto al 2014 (-9,7%) si è registrata nel Veneto, dove però, c’è stato l’effetto catalizzatore della lista “del presidente” collegata a Zaia, beneficiato soprattutto per la sua “identità” veneta più gradita in una regione sempre assai poco legata alla direzione “lumbard” della Lega.

In Francia qualcosa di analogo si era già visto con l’ascesa del Front National, ma a fronte di questi dati, a sinistra, si sono spese molte analisi, tutte comunque accomunate dal tentativo di “ridimensionare” il fenomeno leghista; sottovalutando tra l’altro – evidenza non secondaria – che ad essere premiata è stata la Lega peggiore: quella che ormai ha completamente soppiantato col razzismo le tematiche politiche che, pur approssimativamente, in passato aveva portato avanti (federalismo, secessione, devolution, etc), al punto da non avere più problemi a rivendicare parole d’ordine nazionaliste e tricolorate come “Prima gli Italiani!”.
La prima tesi è che si sarebbe trattato di un “effetto mediatico”, ossia dovuto alla sovraesposizione televisiva di un personaggio come Salvini, segretario fino a poco tempo fa ritenuto del tutto insignificante. Sicuramente, la sua costruzione a tavolino – come opportunamente sottolineato da Wu Ming – è stata un capolavoro: da un momento all’altro “Salvini” è apparso nei giornali e nelle tv – e non ne è mai più uscito – interpretando il ruolo di un leader del centrodestra su misura per far galleggiare Renzi ancora per un po’, cannibalizzando i resti di Forza Italia. D’altronde la funzione è stata ammessa dalla stesso Renzi quando ha detto: “Fuori dal Pd l’alternativa è Salvini e il centrodestra”, confermando quanto torni utile l’esistenza dell’altro Matteo con la felpa, ottimo alibi per motivare provvedimenti governativi anti-immigrazione.
Detto questo, però, ridurre semplicemente la sua “rappresentatività” in considerevoli settori dell’elettorato – anche in regioni e città tradizionalmente “di sinistra” e in quartieri a composizione popolare – ad una questione pubblicitaria appare francamente elusivo. Così come lo è sostenere che nel serbatoio leghista sarebbero confluiti “soltanto” voti di destra, centrodestra ed estrema destra che in passato avevano scelto altri simboli, non escluso quello del Movimento 5 Stelle.
Tali teorie non convincono, soprattutto se si ascolta la famosa “narrazione” che prevale per strada, sui bus, nei negozi, nei treni e, purtroppo, sui posti di lavoro attorno alla cosiddetta “emergenza” immigrati o, peggio ancora, al “problema” rom.
Luoghi comuni xenofobi; dicerie come quella dei 35 (o 40, 50, 70…) euro al giorno regalati ad ogni immigrato; pregiudizi e stereotipi razziali; infondate asserzioni sul presunto furto di case, lavoro, asili, etc. da parte dei “non italiani”; cinismo astioso che, in rete, esulta persino sui bambini morti se “negri” o “zingari”: è una melma che sale e non soltanto dalle fogne nazifasciste.
Una melma trasversale ai partiti, sicuramente non confluita unicamente nel voto alla Lega o ai Fratelli della Meloni e che, come ogni inquinamento culturale ed etico, è destinato a permanere pure dopo una sua futura flessione.
Di fronte a tale allarmante sintomatologia si preferisce glissare, pure in contesti di movimento nominalmente “anticapitalisti”, magari nella convinzione che il razzismo sia solo di stato oppure il riflesso delle politiche discriminatorie di un governo, una conseguenza fisiologica della crisi o finanche la conferma delle analisi marxiste delle contraddizioni frutto dell’esistenza del famoso “esercito industriale di riserva”, rimandando quindi all’avvenire la risoluzione di un problema ritenuto “sovrastrutturale”.
Altri ancora, ancor più opportunisticamente, pur consci che le pulsioni razziste nei settori popolari sono in crescita, non ritengono conveniente affrontarlo direttamente, in quanto sarebbe troppo difficile e, appunto, risulterebbe impopolare; per cui, si fa finta di non sentire, e magari si arriva a compiacere atteggiamenti individuali e collettivi che dovrebbero invece trovare subito un argine, in quanto tale deresponsabilizzazione e condiscendenza sono un boomerang ad alta pericolosità per i percorsi di lotta, emancipazione e solidarietà di classe.
Sovente, alla base di certi arretramenti e rimozioni, vi è la convinzione idealistica attorno ad un proletariato di per sé immune all’ideologia razzista e ai veleni della discriminazione (compresa quella sessista); purtroppo, così non è mai stato.
Basti ricordare i linciaggi, veri riti pubblici di odio razziale per cementare le comunità, di cui fecero le spese centinaia di immigrati italiani negli Stati Uniti, a cavallo tra Ottocento e Novecento, o la strage di Aigues-Mortes nel 1893 quando una folla di operai e disoccupati francesi massacrò almeno una decina di italiani (17 i dispersi) che lavoravano nelle saline: un eccidio durante cui comparvero tra gli aggressori anche bandiere e parole d’ordine “rivoluzionarie”. Ma, anche, ricordando un po’ la storia italiana, l’impietoso razzismo degli operai settentrionali nei confronti dei meridionali, dei “terroni”, che giungevano nei centri industriali del Nord negli anni Sessanta, in un periodo quindi non di crisi ma di boom economico.
Purtroppo, il nazionalismo (magari a partire dalla difesa del Made in Italy) in questi decenni ha fatto molti danni, penetrando anche nella classe lavoratrice e producendo nefaste contrapposizioni tra salariati “autoctoni” e “stranieri”, per non parlare nel vero e proprio odio che colpisce gli ultimi tra gli ultimi, ossia rom e sinti che sono talvolta costretti a nascondere la propria appartenenza nei luoghi di lavoro. Nei loro confronti agisce una miscela particolarmente venefica che, assieme al rifiuto etnico, somma l’avversione produttivista nei confronti di chi non ama il lavoro salariato (e lo sfruttamento), già elemento centrale dell’ideologia staliniana non meno di quella capitalista.
Riconoscere quindi il razzismo e combatterlo anche in seno alle classi popolari diventa quindi elemento centrale del conflitto contro il dominio: la sua coniugazione con la rivendicazione dell’uguaglianza e della libertà non è rinviabile ad un altro tempo, non tanto per scongiurare perdite di voti a sinistra, ma per disinnescare ulteriori guerre tra poveri.
I nemici di altri sfruttati sono a tutti gli effetti nemici dell’umanità e, su tale confine, si definisce ancora la differenza tra asservimento e consapevolezza di classe.

Osservatorio anti-discriminazioni

ANTIGITANISMO ELETTORALE

n-SALVINI-CAMPO-ROM-large570

Anche quest’anno il rapporto di Amnesty International 2014-15 riguardante l’Italia non può fare a meno di indicare tra gli aspetti più critici la perdurante discriminazione nei confronti dei Rom, soprattutto per quanto riguarda le condizioni precarie di vita nei campi e nei centri dove sono segregati, nonché i continui sgomberi forzati operati dalle forze dell’ordine senza alcuna alternativa abitativa.

I report della nota associazione per i diritti umani, come è noto, si fondano su rilevazioni e registrano in termini generali le violazioni documentate denunciando le inadempienze legislative da parte di governi e istituzioni; per cui, apparentemente, si è portati a ritenere che niente sia mutato, né in peggio né in meglio, rispetto allo scorso anno.

Si tratta però una percezione errata e chiunque ha modo di occuparsi o fare attenzione a quanto sta avvenendo, sa che la realtà è andata notevolmente peggiorando, non solo perché l’attuale governo con il suo ministero dell’Interno continua a trattare quello che definisce come il “problema” dei Rom alla stregua di una minaccia all’ordine pubblico, ma in quanto è ormai tangibile la crescita degli atteggiamenti intolleranti e aggressivi contro questa esigua minoranza, additata come la causa di tutti i mali esistenti e persino immaginari che travagliano il vivere quotidiano delle persone non-rom.

Basta sentire le gratuite affermazioni colme d’odio seminate nei luoghi pubblici o leggere i commenti che appaiono sui giornali o sui social network, per cogliere le premesse ad ogni possibile baratro dell’intelligenza e dell’umanità. Anche se non fece notizia, l’episodio avvenuto nell’ottobre 2013 a Napoli quando una donna, gettò intenzionalmente dal balcone di casa dell’acido muriatico, deturpando in modo permanete il viso di un bambino rom di due anni che si trovava in strada con la mamma, resta la prova di quali danni produce questo clima in cui chiunque si sente autorizzato a trasformarsi in aguzzino.

D’altronde, la quasi totalità dei politici e dei giornalisti sfruttano e alimentano tale psicosi perché così si guadagnano voti, lettori ed accessi. Basti ricordare il post “I rom sono da termovalorizzare”, per il quale nello scorso novembre tale Cristiano Zuliani, sindaco leghista di Concamarise (Vr), aveva guadagnato l’onore delle cronache senza che nessuno si sentisse in dovere di mettere in discussione la sua carica istituzionale.

Come ha scritto Francesca Saudino (www.osservazione.org): “Se rispetto all’antisemitismo siamo ormai sensibili e abbiamo gli anticorpi, rispetto all’antiziganismo siamo ancora accecati e siamo portati a derogare sistematicamente a una visione egualitaria che offra ai rom le stesse possibilità degli altri. Ciò avviene, principalmente, perché offrire ai rom pari opportunità non conviene per il consenso elettorale”.

D’altronde, in un contesto in cui i poteri e i ceti politici sono costantemente sotto accusa per furti legali, reati di mafia e saccheggio di beni pubblici, al punto che la “cleptocrazia” è ormai sistema di governo, non c’è niente di meglio che indirizzare l’indignazione popolare contro la micro-criminalità, esclusivamente ed impunemente attribuita alle comunità Rom e Sinti.

Da sottolineare l’atteggiamento della Lega Nord che ormai ha individuato gli “zingari” come principale bersaglio delle sue campagne isterico-demagogiche, utili anche per far dimenticare ai propri elettori ed iscritti le ruberie compiute per decenni dai vertici dello stesso partito padano, a partire dal clan di Bossi.

Non di meno, l’estrema destra ha buon gioco a soffiare sull’odio contro rom ed immigrati, dopo che a Roma è saltato il coperchio di quella pentola criminale che vedeva noti fascisti arricchirsi indebitamente grazie agli appalti per campi nomadi, centri d’accoglienza per i profughi ed emergenza abitativa.

E alle operazioni di polizia, alle distruzioni dei campi compiute col fuoco o le ruspe, alle deportazioni senza alcun riguardo neppure per i bambini, ultimamente si registra la facilità con cui lo “sparare allo zingaro” non è più espressione figurata, ma diviene opzione sempre più frequente, seppure con killer diversi.

Ad iniziare fu la banda della Uno Bianca: era il 23 dicembre del 1990 – due sinti emiliani restarono uccisi e due rom rimasero feriti dai colpi sparati contro il campo sosta in via Gobetti a Bologna. Le vittime si chiamavano Rodolfo Bellinati, 27 anni e Patrizia Della Santina di 34 anni, mentre rimasero ferite gravemente una bambina e una Romnì slava. Alcuni anni dopo, nel 2004, un commando di camorristi uccise come rappresaglia (per un furto nella casa di un boss) due rom estranei al fatto – Mirko e Goran Radosavljevic. – presso il campo di Secondigliano a Napoli.

Invece, nello scorso febbraio, tra le province di Cremona e Bergamo, in uno spiazzo vicino al Naviglio, di ritorno da una festa notturna di carnevale, è stato un disoccupato, ex-parà, a sparare con una pistola di grosso calibro senza alcun motivo – se non il dichiarato razzismo – contro due camper dove abitava in miseria una famiglia rom, uccidendo Roberto Pantic, 43 anni, padre di dieci figli.

Ma una pistola è comparsa pure recentemente in mano ad un pubblico ufficiale a Roma, nel corso di un’insensata operazione di polizia presso il centro di accoglienza di La Rustica, appena distrutto da un incendio di probabile natura dolosa, quando agenti della Polizia municipale sono intervenuti malamente, utilizzando anche spray urticante, contro un gruppo di rom, composto perlopiù da donne e bambini che, dopo aver passato la notte all’addiaccio, aveva reagito alla prepotenza in divisa.

 

Osservatorio anti-discriminazioni

 

CAMPAGNA per la CHIUSURA dei MANICOMI CRIMINALI (tutt’ora esistenti)

Rete antipsichiatrica, è per il 28 marzo, in piazza a Reggio Emilia

Dal 1904 al 1978, in Italia, è stata in vigore la Legge n. 36 (“Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”) mediante la quale la decisione di rinchiudere e spesso seppellire una persona – per presunta pericolosità sociale o pubblico scandalo – in una galera psichiatrica era demandata, oltre che ai parenti, a pretori, procuratori, prefetti, questori, podestà e direttori di manicomi.
Anche se tale legge era stata emanata dal governo del liberale Giolitti, l’individuo vedeva annullata ogni tutela delle proprie libertà ed era consegnato inerme all’arbitrio statale, e risultava a tutti gli effetti un dispositivo legale volto a togliere dalla circolazione i soggetti “devianti”; infatti, la loro “colpa” e la loro “malattia” discendeva generalmente da una supposta pericolosità legata all’essere improduttivi oppure al turbamento l’ordine pubblico.
Il fascismo, perciò, accolse pienamente questo impianto ideologico e, soprattutto dal 1927, lo inserì nel suo stato di polizia, tanto che fissò nel Testo unico delle leggi di Ps le regole da attivare per il controllo dei degenerati e delle classi pericolose, oltre che dell’alienazione mentale, mirando a colpire ugualmente sospetti oppositori politici, donne di condotta immorale, rom e sinti, oziosi e altri soggetti marginali.
Dopo il 1945, caduto il fascismo, questa logica non registrò sostanziali mutamenti d’indirizzo, tanto che non furono pochi gli sventurati, prigionieri dei manicomi “civili” e “criminali” (ribattezzati “giudiziari”), che non si accorsero neppure del cambio di regime e la loro alienazione non venne neanche sfiorata dalla democrazia; al punto che soltanto nel 1978, a seguito di importanti lotte e movimenti che rifiutavano la separazione tra fuori e dentro, così come tra sani e malati, la famigerata Legge 36 fu soppiantata dalla Legge 180, conosciuta col nome di Franco Basaglia che era stato il principale ispiratore. Si trattò di una rottura epocale e l’esperienza italiana venne riconosciuta come all’avanguardia per il superamento dei manicomi che in seguito a questa legge furono aperti, pur se la non compiuta applicazione di questa lasciò sole le persone con disagio psichico e i loro familiari.
Ancora più desolante il quadro della detenzione nei manicomi giudiziari, dove le sentenze penali s’intersecano con le terapie psichiatriche, incluso il ricorso a metodi inumani (letti di contenzione, camicie di forza, elettroshock, farmaci annichilenti…).
Attualmente, in Italia esistono ancora sei Ospedali psichiatrici giudiziari (Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere), alcuni dei quali sono in strutture vecchissime, persino borboniche, che nei secoli hanno visto rinchiusi “soggetti devianti” di ogni genere: briganti, anarchici, sovversivi, lesbiche, omosessuali, senza dimora, alcolisti, etc.
Dentro questo “non-luoghi” vi sono tutt’ora internate 850-900 persone che, in seguito a perizie psichiatriche, sono state considerate non imputabili  per aver compiuto atti contrari alla legge, ma bollati come «socialmente pericolosi». Le persone detenute negli Opg vivono di fatto dentro un limbo giuridico e mentale, senza alcuna autonomia d’uscita, che passano la loro quotidianità in strutture fatiscenti dove la repressione fisica, chimica e psicologica è la norma.
A seguito di un’ispezione parlamentare, che nel 2013 fece “scoprire” ad alcuni senatori la realtà degli Opg, fu approvata la legge n°81/2014 che converte il decreto legge del 31 marzo 2014 n°52 recante disposizioni in materia di superamento degli Opg. Questo decreto, n° 52/2014, prevede la proroga dal 1° aprile 2014 al 31 marzo 2015 il termine -improbabile – per la chiusura degli Opg e la conseguente entrata in funzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione Misure Sicurezza), in una logica di decentramento piuttosto che di abolizione della detenzione psichiatrica.
Nelle future REMS la durata della misura di sicurezza non dovrebbe essere superiore a quella della pena carceraria corrispondente al medesimo reato compiuto. Tuttavia la costruzione delle REMS, affidata alle Regioni, non è stata avviata quasi da nessuna parte, perciò è
presumibile che, ancora una volta, si passerà ad un altro rinvio.
Qualora dovesse concretizzarsi queste nuove strutture vedranno comunque una gestione (come per i CIE) affidata al privato sociale, magari confessionale, andando così incontro a fenomeni di allungamento della degenza per assicurarsi i finanziamenti, con una presa in carico vitalizia ad opera dei servizi psichiatrici.
In questo contesto la questione centrale rimane quella del superamento del modello di internamento, per non riproporre gli stessi meccanismi e gli stessi dispositivi manicomiali in nuove istituzioni totali, seppure di dimensioni ridotte.
«La realtà manicomiale, – come ha scritto G. Antonucci – che si può toccare perché è fatta di pareti, è ben poca cosa di fronte alla diffusione del concetto stesso di manicomialità che si fonda esclusivamente sulla persistenza del giudizio psichiatrico. Ritengo che a poco serva attaccare l’istituto del manicomio se non si porta un attacco radicale allo stesso giudizio psichiatrico che ne è alla base, mostrandone l’insussistenza scientifica. Finché non sarà abolito il giudizio psichiatrico la realtà della segregazione continuerà a fiorire dentro e fuori le pareti dei manicomi».

L’esistenza degli Opg evidenzia perciò l’enorme potere della psichiatria il cui giudizio, non basato su fatti ma su supposizioni pseudo-scientifiche, costituisce la base per la segregazione dell’altro, non tanto per “curarlo” ma allo scopo di separarlo da una società ritenuta “sana”.
Contro le sbarre della psichiatria e la micidiale normalità di uno stato di permanente alienazione sociale, attivarsi per la chiusura definitiva degli Opg diventa quindi il primo passo per aprire spazi di autodeterminazione, individuale e collettiva, nonché per rivendicare la
libertà alla non-omologazione e alla diversità, contro ogni polizia in divisa o in camice bianco.

L’appuntamento, nazionale, promosso dalla Rete antipsichiatrica, è per il 28 marzo, in piazza a Reggio Emilia.

(per info: http://artaudpisa.noblogs.org/)

L’APOLOGO DEI DUE SACCHI

Work or riot, one or the other!
I  nostri nonni ci ricordavano che servono sempre due sacchi, uno per darle e uno per prenderle; ma, negli ultimi anni, il secondo si è andato facendo sempre più pesante e sbilanciato rispetto al primo.
Mercoledì 29 ottobre; risveglio tardivo per certa sinistra e certo sindacalismo: non solo è scaduto il tempo della concertazione, la polizia manganella persino gli operai della Thyssen che protestano pacificamente.
Doveva accadere in una piazza romana e coinvolgere i metalmeccanici, compresi alcuni dirigenti sindacali, perché fosse evidente l’attitudine squadrista dei governi “delle larghe intese” nella gestione del conflitto sociale.
In realtà, le cronache degli ultimi mesi registravano già un crescendo di aggressioni violente ed interventi polizieschi contro le lotte dei lavoratori, in particolare nel settore della logistica, accompagnate peraltro da atteggiamenti provocatori da parte del premier e della sua corte leopoldina.
Basti ricordare, tra i tanti episodi, le cariche contro i facchini presso la Coop Centrale Adriatica ad Anzola nel bolognese (22 marzo 2013); quelle contro il picchetto dei lavoratori della Granarolo a Bologna (25 giugno 2013) e le non meno dure ai danni dei lavoratori della Cogefrin presso l’Interporto di Bologna (21 novembre 2013).
La nomina di Renzi a presidente del consiglio è coincisa quindi con un ulteriore inasprimento della tensione e del ricorso alla forza pubblica, sotto la guida di un ministro dell’Interno come Alfano al quale non è rimasta altra risorsa per affermare la propria esistenza politica.
In questo 2014, la polizia è intervenuta coi soliti metodi contro i lavoratori e le lavoratrici degli “Appalti Storici” di Pomezia (19 febbraio), quindi sono seguite le cariche contro un picchetto all’Ikea a Piacenza (7 maggio), poi contro i facchini del CAAT a Torino (23 maggio) e poi nel milanese contro il picchetto dei facchini alla Dielle a Cassina de’ Pecchi (25 maggio). Altre manganellate contro un picchetto dei facchini alla Conor a Bologna (1 luglio) e le cariche contro i lavoratori della Mirror a Ferrara (3 ottobre).
Nel generale disinteresse dei media e dei politicanti, contro il diritto di lottare per difendere il proprio reddito rifiutando le forme moderne dello schiavismo salariato, lo stato da tempo cerca di terrorizzare preventivamente ogni espressione di rivolta, specie se vede protagonisti lavoratori italiani assieme a quelli migranti.  
Se poi il discorso si allarga alla repressione nei confronti di altri movimenti e soggetti dell’opposizione sociale ci si rende conto che, da Torino a Napoli, dalle occupazioni di case alle resistenze ambientali, ormai siamo ben dentro quella fase da anni prevista e pianificata dagli apparati polizieschi europei per far fronte alle insorgenze collegate all’aggravarsi degli effetti della cosiddetta crisi economica.
Il risveglio collettivo appare brusco e coglie impreparati i più, disabituati a pratiche e situazioni di piazza diverse da quelle della pace sociale e del dialogo con le istituzioni, ma le cose possono e, in parte, stanno già cambiando velocemente.
Si scopre così che il padronato – sino a ieri “mondo imprenditoriale” – è sempre lo stesso, che le contraddizioni di classe non solo esistono ancora, ma si radicalizzano di pari passo al peggioramento verticale delle condizioni di vita e lavoro, mentre i profitti e i privilegi di pochi crescono in modo esponenziale.
La persistenza del capitalismo, con le sue logiche distruttive e antiumane, torna quindi ad essere il problema dei problemi e persino le parole cominciano a cercare una coerenza di senso: gli “operatori della sicurezza” e i “lavoratori della polizia” vengono di nuovo riconosciuti come sbirri e trattati quali gendarmi al servizio del potere.
E’ un primo segno di consapevolezza, non tanto per incentivare lo scontro con le forze dell’ordine, ma necessario per meglio individuare la loro funzione, le cause della loro aggressività e i disegni reazionari a cui obbediscono, nonché attrezzarsi per un’adeguata autodifesa collettiva. 
Resta infatti valido l’avvertimento malatestiano: “Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”.

Altra Info

BECCARIA E’ MORTO, IL BOIA VEGETA

boia
 
Sono infinitamente meno pericolose le passioni del mio vicino che non l’ingiustizia delle leggi, poiché le prime sono contenute dalle mie, mentre nulla arresta, nulla ostacola le ingiustizie della legge.
(De Sade)

Politici, penalisti e intellettuali democratici celebrano quest’anno i 250 anni dalla prima edizione del trattato Dei delitti e delle pene, dove Cesare Beccaria aveva con forza sostenuto che «non vi è libertà ogni qual volta le Leggi permettono che in alcuni eventi cessi di essere Persona, e diventi cosa».

L’illustre autore non poteva immaginare che, dopo due secoli e mezzo, la pena di morte e la tortura oggetto del suo J’accuse appartengono ancora alla realtà di una società che si ritiene civile, evoluta e progressista.

Infatti, la storia della tortura continua ad aggiornarsi, attraverso i secoli, i continenti e le diverse forme di dominio, con un medesimo intento punitivo che prescinde ogni altra considerazione sul rispetto dei diritti umani che, a parole, tutti dicono di voler salvaguardare.

In realtà, dopo la pubblicazione del Dei delitti e delle pene, subito messo all’Indice dalla Chiesa di Roma, in molti accusarono di eccessivo umanitarismo (oggi si direbbe buonismo..) Beccaria, come fece Immanuel Kant che giunse a sostenere che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa» perché altrimenti «il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». D’altronde secondo Kant, «nel momento in cui la legge non può fondarsi sul bene, quale principio superiore, essa non deve nemmeno trovare la sanzione del meglio, quale volontà del giusto» (G.Deleuze). Nonostante i risibili tentativi di chi oggi cerca di rivalutarlo come un filosofo “anarchico”, Kant in questo modo si dimostrava invece preoccupato dal potenziale sovversivo insito nelle tesi di Beccaria che negava alle istituzioni e alla comunità il diritto d’arrogarsi alcun potere che non sia loro direttamente trasferito dalla volontà dei singoli individui concreti.

Analoga incapacità, peraltro, si riscontra  ancora in questo secolo al punto che il ricorso sistematico alla tortura nei confronti dei sospetti terroristi, negli Usa è stato ritenuto un mezzo giustificato dal fine persino da settori ed esponenti liberal, quali ad esempio Alan Dershowitz, esimio professore di legge ad Harvard, favorevole alla sua formale legalizzazione, riecheggiando la cosiddetta “eccezione” di Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica.

Così, pur in contrasto con tutte le convenzioni e i trattati internazionali, il presente e persino il futuro continuano a non liberarsi dal passato, un passato che ci riporta, senza soluzione di continuità, per vincere, l’uno il tradimento e l’altra l’eresia, sia lo Stato che la Chiesa si sono avvalsi infatti di tale metodo basato sul terrore.

Nel 1252, fu Innocenzo IV, nella bolla papale Ad extirpanda a introdurre la tortura come metodo per la ricerca della verità; d’altronde, l’idea stessa di “castigo divino” implicava il principio per il quale, attraverso la sofferenza, era possibile cancellare la colpa riscattandola attraverso la punizione inflitta, sacralizzando così la coincidenza di significato tra dolore e pena e, conseguentemente, benedicendo la figura del boia e dei patimenti impartiti dall’Inquisizione.

Questa tetra immagine ci permette di aprire una riflessione sull’istituzione e l’idea stessa di Giustizia, secondo quanto suggerisce Rafael Sánchez Ferlosio che identifica «i giudici, l’avvocato difensore e il pubblico ministero come il personale di servizio del boia».

Un’idea da rivoltare in maniera radicale, se si vuole comprenderne realmente l’essenza o, come scrive Ferlosio, è necessario percorrere a ritroso la strada così come ci appare, dissimulata dalla morale dominante e dall’assolutismo legalitario.

Considerata infatti l’evidenza per cui la Giustizia continua ad essere soprattutto sinonimo di vendetta, vedendo la priorità del castigare prevalere persino su quella del giudicare, per giungere alla somministrazione del dolore a dei corpi (segregazione, isolamento, tortura, stupro, pena capitale…) e non per provvedere alla riparazione reale dell’ingiustizia, al soccorso della vittima e alla risoluzione preventiva delle cause del delitto. Non appare perciò azzardato condividere l’interrogativo di Ferlosio: «Non sarà dunque, in realtà, il boia il più antico dei funzionari, intorno al quale hanno poi via via preso forma tutti gli altri tramiti anteposti, coi loro corrispondenti funzionari, al cruento proposito della punizione?»

Se nei regimi dittatoriali questo aspetto totalitario appare intrinseco alle rispettive ideologie liberticide, nelle democrazie appare dissimulato e coperto dalla ragione “superiore”, a tutela di una sicurezza collettiva minacciata da presunti nemici esterni e interni. Per cui, anche negli Stati liberali, il confine tra azione politica legale e abuso criminale tende ad annullarsi con la complicità di milioni di “spettatori consenzienti” che ritengono come normale e persino plaudono il lavoro dei torturatori, assieme all’esistenza dei campi di concentramento, alle violenze sessuali autorizzate, alla soppressione delle libertà formali, nonché agli omicidi mirati e alle attività terroristiche messe in atto dagli apparati statali.

A titolo d’esempio, basta ricordare che lo Stato italiano, presentato ogni giorno come garante costituzionale della libertà e della legalità, dimostra il proprio livello di civiltà giuridica, a tutt’oggi non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale e non ha abolito l’ergastolo, dopo essersi presto assolto per le torture e gli stupri perpetrati – e fotografati – dai parà italiani in Somalia durante la missione Restore Hope (1992-’94).

Un presente che se da un lato può far apparire Beccaria un simpatico utopista, dall’altro conferma gli sviluppi della sua critica che sono stati ritrovati alcuni anni fa sotto forma di suoi appunti in calce ad una copia dei suoi scritti.

In queste annotazioni Beccaria faceva intuire l’intenzione di rivedere la sua opera, giungendo ad una critica radicale e persino con aspetti libertari della pena e del controllo sociale sugli individui, mettendo in discussione il diritto delle istituzioni di limitare o addirittura sopprimere la vita, per il semplice fatto che questo diritto non può venir loro trasferito dagli individui.

Da qui, nella consapevolezza che non esiste libertà nella scelta di farsi schiavizzare, tanto meno è ammissibile che un individuo si sottometta all’arbitrio dello Stato nel disporre della sua vita e della sua morte.

Altra Informazione

GENOVA 2001: LA FARSA DI CAPODANNO

 g8_genova_scuola_diaz_478x316_800_800

Il 2013 si è concluso all’insegna del paradosso, con la notizia dell’arresto degli ultimi due “superpoliziotti” condannati per i fatti di Genova nel luglio 2001, in relazione all’irruzione notturna e all’introduzione di reperti e prove false nella scuola Diaz, teatro della “macelleria messicana” compiuta dai reparti mobili della polizia ai danni dei manifestanti che vi stavano pacificamente dormendo. Uno è Spartaco Mortola, personaggio ben noto a Genova, quale ex capo della Digos cittadina e poi divenuto questore vicario di Torino: dal giorno di San Silvestro è ai domiciliari con otto mesi di reclusione da scontare nella propria abitazione. L’altro è Giovanni Luperi, ex dirigente Ucigos nei giorni del G8, quindi capo-analista dei servizi segreti e attualmente in pensione: per lui, della condanna definitiva a quattro anni, ne resta uno.

Il giorno precedente (pomeriggio del 30), l’arresto era scattato per un altro pezzo grosso: Francesco Gratteri, numero tre della polizia italiana prima della condanna, coordinatore d’indagini su attentati e latitanti. È ora obbligato a un anno di domiciliari, ma potrà beneficiare come gli altri di alcune ore (2 o 4) di libertà durante il giorno e usare il telefono.

I poliziotti-detenuti potranno in aggiunta chiedere il riconoscimento della buona condotta, e quindi vedersi ridurre ulteriormente di qualche mese la pena-farsa, oltre a ciò che era stato spazzato dall’indulto del 2006.

Di un’analoga generosità invece non beneficia l’anarchica Marina Cugnaschi, condannata con una sentenza kafkiana a 11 anni e 9 mesi per gli scontri del G8 di Genova 2001 e attualmente detenuta nel carcere milanese di San Vittore: a tutti gli effetti la detenuta politica più duramente colpita dalla repressione statale, quasi come se dovesse espiare tutte le “colpe” di coloro che in quei giorni si opposero attivamente al potere economico e allo sfruttamento mondiale.

Sul suo caso emblematico, è urgente e necessario rompere il silenzio, ricordando a quelle decine di migliaia di persone che in quei giorni fecero diretta esperienza della violenza legale, che c’è ancora chi sta pagando un prezzo altissimo e iniquo per le stesse istanze sociali di liberazione e proprio a loro rivolgiamo quanto rivendicato da Marina stessa in tribunale davanti ai suoi persecutori: “La natura squisitamente politica di questo procedimento penale impone una netta presa di posizione, alla luce soprattutto degli innumerevoli tentativi da parte della magistratura e della stampa di screditare e spoliticizzare davanti all’opinione pubblica gli imputati di questo processo. Soggetti che loro malgrado sono incappati negli ingranaggi della giustizia borghese e fatti figurare in certi casi come un branco di violenti teppisti, in altri come un’orda di barbari scesi nelle strade di Genova con il preciso intento di devastarla e saccheggiarla. No

 signori, intanto l’accusa di devastazione e saccheggio la rinvio direttamente al mittente poiché offensiva e poiché non fa parte del mio bagaglio storico politico. La classe sociale a cui appartengo è colma fino all’orlo di ingiustizie, soprusi e umiliazioni inflitte dai padroni. Ed è proprio nel santuario della democratica inquisizione dove viene sistematicamente perpetuata l’ingiustizia sociale, in cui tengo a precisare e ribadire la mia ferma opposizione ad ogni forma di dominio, all’ineguaglianza sociale, allo sfruttamento. E seppur cosciente che come nemica della vostra classe mi si infliggerà una pena severa poiché portatrice di principi malsani assolutamente in contrasto con l’ordine costituito, vi comunico che personalmente come lavoratrice salariata ho avuto modo di conoscere i veri devastatori e saccheggiatori”.

Altra Info

L’anarchia e le sue immagini

 

 

L’anarchia e le sue immagini

anarchy-anarchia-7026b

 

 

Sui giornali, ma anche nel web, è possibile imbattersi in ricorrenti quanto infondati riferimenti ai simboli dell’anarchia, costantemente presentati quali elementi cupi e ambigui di un movimento che si vuole additare e criminalizzare come temibile e insidioso.

Eppure non c’è niente di oscuro e misterioso, nella storia della componente più antica e conseguente della lotta per l’emancipazione sociale, basta volerla conoscere.

Una bella esposizione delle interpretazioni della simbologia anarchica si trova nel racconto che Marie-Christine Mikhailo fa di un incontro con Pier Carlo Masini, storico dell’anarchismo, al quale era stato chiesto di parlare dei disegni che ornavano le testate dei giornali italiani:

Si comincia con un mare in burrasca, diceva Masini, è la classe operaia che si risveglia, e con un mezzo sole all’orizzonte, i cui raggi portano la speranza di un mondo migliore. Il disegno ha un certo successo e sarà per questo ripreso da altri periodici, ognuno dei quali aggiunge un particolare con l’idea di migliorarlo. Così, un anno si vede il sole che lancia i suoi dardi su un mare più calmo, poi compare una nave le cui vele si gonfiano al vento della Storia.

 […] Nel corso degli anni certi giornali apportano novità all’illustrazione originale. Sulla riva appare una donna nuda che solleva una torcia, le cui fiamme disegnano la parola Libertà. Di fronte c’è sua sorella, anch’essa senza vestiti, che schiaccia sotto un piede la legge. Orrore! Un serpente le si avventa contro e sta per morderla a una gamba. Per fortuna un uomo a torso nudo e tutto muscoli (un operaio, si vede!) colpisce con la spada la bestia infame che abbiamo riconosciuto: è la Chiesa.

 […] In quel momento [commenta Marie-Christine] la fantasia ha forse preso il sopravvento sulle conoscenze dello storico? Che importa? Gli occhi dei più giovani, fissi su di lui, lo stimolavano certamente, ed egli è stato capace di conquistarli. Si indovinava, dietro al tono ironico, un’autentica ammirazione per coloro che, con poveri mezzi, avevano cercato di avvicinare i lettori all’Idea.

 

La diffusione d’immagini su larga scala è un fenomeno relativamente recente, visti i mezzi a disposizione. Fino a quel momento, le uniche immagini erano quelle dei libri e dei giornali. Solo intorno agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso riprodurre i documenti diventa più semplice e accessibile, grazie alle fotocopie e alla stampa offset. Le scritte e i disegni sui muri sono mezzi d’espressione che quasi non esistevano prima delle manifestazioni del Maggio 1968.

Certe immagini e certi simboli tendono allora a diventare una sorta di icone senza storia (per esempio l’immagine di Che Guevara su generi di consumo di ogni tipo). Il contesto della loro comparsa e della loro evoluzione può servire a restituire un senso talora difficile da cogliere e comprendere.

 

La bandiera nera

Diciamo prima di tutto che la “bandiera nera” non è propriamente una bandiera e non è necessariamente nera. Tuttavia, con questo nome è diventata un segno e un simbolo dell’anarchia.
Nel 1831, in un quadro di lotte sociali che precede il sorgere del movimento anarchico in quanto tale, i canuts (operai e operaie delle manifatture della seta) di Lione si ribellano alle condizioni di lavoro loro imposte. In novembre scoppia un’insurrezione di tre giorni, che porterà a una vittoria con le armi. I canuts si battono sotto un vessillo nero sul quale è ricamata la parola d’ordine: Vivre en travaillant ou mourir en combattant [Vivere lavorando o morire combattendo]. Nello stesso periodo, parallelamente, nel movimento operaio s’afferma anche la bandiera rossa, usata come segnale di adunata nelle dimostrazioni proletarie e socialiste e, in particolare, durante la Comune di Parigi (1871).

E’ stata avanzata l’ipotesi che il rosso sia stato abbandonato in seguito alla scissione successiva al Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori del settembre 1871 all’Aja, che vide la nascita della Fédération Jurassienne. Il 18 marzo 1882, nel corso di un’assemblea a Parigi, la comunarda anarchica Louise Michel avrebbe rivendicato l’adozione della bandiera nera, per dissociarsi senza ambiguità dai socialisti autoritari e parlamentaristi.

Il 9 marzo 1883, nel corso di una manifestazione a Parigi che riuniva circa quindicimila disoccupati, Louise Michel agitò una bandiera nera (forse, soltanto una sottana o di un grembiale nero da lavoro legato ad un manico di scopa). come segnale di raccolta e riscossa. Circa cinquecento persone saccheggiarono tre forni, reclamando pane e lavoro, prima di essere dispersi dalla polizia. Louise Michel, identificata dalle forze dell’ordine e accusata di avere istigato i disordini, sarà successivamente imprigionata e deportata in Nuova Caledonia.

Nell’agosto 1883, la pubblicazione a Lione del periodico francese «Drapeau Noir» permise in certa misura di divulgare la scelta di questo segno.

La bandiera nera arriva in America nel 1884, secondo lo storico Paul Avrich. Sarebbe stata esposta, il 27 novembre di quell’anno, sulla Market Square di Chicago, in occasione di una manifestazione operaia promossa dagli anarchici dell’Internazionale. Secondo un giornale militante locale, «The Alarm», a fianco del tradizionale vessillo rosso, sul palco degli oratori, sventolava una grande bandiera nera. I due stendardi, dopo i comizi, presero insieme la testa del corteo che attraversò la città.

Tra il 1911 e il ’14, durante la rivoluzione messicana nera è la bandiera degli insorti contadini guidati da Emiliano Zapata recante la scritta Tierra y libertad, mentre in Nicaragua il comandante rivoluzionario Sandino adotterà una il rosso e il nero per la bandiera della lotta di liberazione, poi ereditata dal Fronte Sandinista.

Anche l’armata contadina di Nestor Makhno, in Ucraina, nel corso della rivoluzione russa del 1917-21, utilizzarono il vessillo nero come propria bandiera, con il teschio e le tibie incrociate, riportante la scritta «Morte a tutti quelli che sono d’ostacolo! Conquista della libertà per i lavoratori!». L’armata maknovista difenderà la rivoluzione sociale sul proprio territorio, opponendosi con le armi sia alle truppe controrivoluzionarie “bianche” che a quelle “rosse” del potere centrale bolscevico.

Il 13 febbraio 1921 si svolsero a Mosca gli immensi funerali di Kropotkin. Molte persone che seguivano il feretro portavano bandiere nere e altre con lo slogan: «Dove c’è autorità non c’è libertà»: fu in pratica l’ultima apparizione delle bandiere nere nella Russia sotto la dittatura sovietica.

Nel corso della rivoluzione spagnola del 1936-39, predominano le bandiere nere degli anarchici della FAI e quelle rosso-nere degli anarcosindacalisti della CNT: con gli stessi colori – ormai simbolo dell’autogestione generalizzata – vengono dipinti fabbriche collettivizzate, autoblindo autocostruiti, mezzi pubblici socializzati e automobili autoprodotte.

In Italia, dopo il ventennio di dittatura fascista e resistenza clandestina, le bandiere e le coccarde rosso-nere ricompaiono nei giorni della Liberazione tra le fila partigiane.

Il poeta surrealista André Breton ricorderà con emozione la comparsa della bandiera nera, in mezzo a a molte altre rosse, nelle manifestazioni operaie e antifasciste negli anni Trenta in Francia, dove riappare impetuosamente nel 1968, durante la rivolta del Maggio, sventolando sulle università e le fabbriche occupate, nuovamente a fianco di quelle rosse.

 

Perché il nero?

L’adozione del colore nero – tornato recentemente alla ribalta con le azioni del Black block – vede diverse ipotesi interpretative e semiologiche, ma appare sempre legata alla lotta di classe e alle condizioni estreme del periodo in cui è comparso. È un colore, o meglio un non-colore forte, il simbolo dell’anarchismo, e ne rappresenta le lotte principali, contro la religione, contro l’economia e, soprattutto, contro lo Stato. Mentre il rosso fa classicamente riferimento al sangue, al pericolo e alla collera; il nero evoca la miseria, il  lutto, ma anche il risentimento.

Questa l’interpretazione offerta dall’anarchica Emma Goldman:

 

La bandiera nera è il simbolo dell’Anarchia. Essa provoca reazioni che vanno dall’orrore alla delizia tra quelli che la riconoscono. Cercate di capire cosa significa e preparatevi a vederla sempre più spesso in pubblico… Gli Anarchici sono contro tutti i governi perchè credono che la libera ed informata volontà dell’individuo sia la vera forza dei gruppi e della stessa società.

Gli Anarchici credono nell’iniziativa e nella responsabilità individuali e nella completa cooperazione dei gruppi composti di liberi individui. I governi sono l’opposto di questi ideali, dato che si fondano sulla forza bruta e la frode deliberata per imporre il controllo dei pochi sui molti. Che questo processo crudele e fraudolento sia giustificato da concetti come il diritto divino, elezioni democratiche, o un governo rivoluzionario del popolo conta poco per gli Anarchici. Noi rigettiamo l’intero concetto stesso di governo e ci affidiamo in modo radicale alla capacità di risoluzione dei problemi propria di ogni uomo libero.

Perchè la bandiera nera? Il nero è il colore della negazione. La bandiera nera è la negazione di tutte le bandiere. È la negazione dell’idea di nazione che mette la razza umana contro se stessa e nega l’unità di tutta l’umanità. Il colore nero è il colore del sentimento di rabbia e indignazione nei confronti di tutti i crimini compiuti nel nome dell’appartenenza allo stato. È la rabbia e l’indignazione contro l’insulto all’intelligenza umana insito nelle pretese, ipocrisie e bassi sotterfugi dei governi…

Il nero è anche il colore del lutto; la bandiera nera che cancella le nazioni è anche simbolo di lutto per le loro vittime, i milioni assassinati nelle guerre, esterne ed interne, a maggior gloria e stabilità di qualche maledetto stato. È a lutto per quei milioni il cui lavoro è derubato (tassato) per pagare le stragi e l’oppressione di altri esseri umani. È a lutto non solo per la morte del corpo, ma anche per l’annullamento dello spirito sotto sistemi autoritari e gerarchici. È a lutto per i milioni di cellule grigie spente senza dar loro la possibilità di illuminare il mondo. È il colore di una tristezza inconsolabile… Ma il nero è anche meraviglioso. È il colore della determinazione, della risoluzione, della forza, un colore che definisce e chiarifica tutti gli altri. Il colore nero è il mistero che circonda la germinazione, la fertilità, il suolo fertile che nutre nuova vita che continuamente si evolve, rinnova, rinfresca, e si riproduce nel buio. Il seme nascosto nella terra, lo strano viaggio dello sperma, la crescita segreta dell’embrione nel grembo materno – il colore nero circonda e protegge tutte queste cose…

Così il colore nero è negazione, rabbia, indignazione, lutto, bellezza, speranza, è il nutrimento e il riparo per nuove forme di vita e di relazioni sulla e con la terra. La bandiera nera significa tutte queste cose. Noi siamo orgogliosi di portarla, addolorati di doverlo fare, e speriamo nel giorno nel quale questo simbolo non sarà più necessario.

 

Come i pirati

Risalendo ad epoche più remote, alla ricerca di analogie, troviamo i pirati con la loro bandiera nera, il Jolly Roger, ma talvolta pure rossa, ornata da un teschio e due tibie (o due sciabole) incrociate, usata per atterrire e indurre alla resa gli equipaggi.

Successivamente, altri gruppi e altri contesti si sono appropriati della bandiera nera – sovente col teschio – in momenti diversi della storia, soprattutto in tempo di guerra, perseguendo altre ideologie del tutto estranee all’anarchismo, quali ambiti militari, formazioni nazionaliste e di estrema destra.

Sul fronte opposto, la bandiera piratesca è stata ripresa da movimenti d’opposizione, anti-legalitari, come quello contemporaneo delle occupazioni di case, spazi sociali e Taz (zone temporaneamente autonome); nonché dagli hacker che, non casualmente, sono definiti pirati informatici.

Così, l’abbinamento bandiere nere-vessilli pirata è da tempo frequente, comunque associato alla critica radicale, nelle più diverse situazioni.

Va peraltro osservato che la bandiera rossa e nera, originariamente legata solo all’anarco-sindacalismo, non sembra oggi avere più un modello unico di riferimento.

Dipende dalle esperienze collettive e dalle scelte individuali, se il rosso è collocato trasversalmente sopra il nero o viceversa, sia dalla parte dell’asta o in quella opposta. Alcune realtà hanno formalizzato l’uso del vessillo bicolore in una delle sue combinazioni, ma appare sempre più un dettaglio non essenziale, mentre sono fiorite le varianti verde-nero (anarcoecologista), fuxia-nero (antisessista), viola-nero (anarcofemminista).

La bandiera anarchica resta soprattutto un pezzo di stoffa che serve a radunare e riconoscere compagni e compagne in piazza. Aldilà di ogni legame affettivo e identitario, rimane uno strumento pratico, caratterizzante, visibile da lontano, che si dispiega e si ripone quando non serve più; d’altronde Max Stirner avvertiva: Io troverò sempre dei compagni che si uniranno a me senza prestare giuramento alla mia bandiera.

 

La A cerchiata

Se in passato il simbolo anarchico più diffuso era stato la fiaccola, richiamante la luce del sapere contro l’oscurantismo, l’A cerchiata è ormai da mezzo secolo quello più conosciuto, nelle sue innumerevoli varianti, associato alle diverse pratiche libertarie.

Riguardo alla sua origine circolano vari miti, ma dovrebbe risalire all’aprile 1964 quando il «Bulletin des Jeunes Libertaires» di Parigi pubblica un articolo che propone un simbolo comune per il movimento:

 

Ci hanno guidato due motivazioni principali: prima di tutto facilitare e rendere più efficace le attività pratiche di scritte sui muri e di attacchinaggio, poi assicurare una presenza più vasta del movimento anarchico agli occhi della gente, grazie a un tratto comune a tutte le espressioni dell’anarchia nelle manifestazioni pubbliche. Più precisamente, si tratta per noi di trovare, da una parte, un mezzo per ridurre al minimo i tempi per le scritte murali, evitando di mettere una firma troppo lunga alle parole d’ordine, dall’altra di scegliere una sigla abbastanza generica, che possa essere adottata e utilizzata da tutti gli anarchici. La sigla scelta ci è sembrata rispondere al meglio a questi criteri. Associandola costantemente alla parola anarchica, finirà, grazie a un meccanismo mentale ben noto, a richiamare da sola l’idea dell’anarchia nello spirito della gente.

 

La sigla proposta è una A maiuscola inscritta in un cerchio. Tomás Ibañez ne è l’ideatore e René Darras il realizzatore. L’idea sembra nascere da una parte dal metodo di stampa a ciclostile dell’epoca, che comportava una realizzazione semplice, e dall’altra parte richiama il noto simbolo pacifista adottato dalla Campaign for Nuclear Disarmement.

Nel dicembre di quell’anno la A cerchiata appare nel titolo di un articolo firmato Tomás (Ibañez), sul giornale «Action Libertaire», poi scompare per un po’ dalla circolazione.
In effetti il simbolo ebbe inizialmente poco successo, facendo solo qualche comparsa sui graffiti del metrò parigino. Alla metà degli anni Sessanta la rete dei Jeunes Libertaires s’indebolisce e questa è forse una delle possibili spiegazioni. Il loro bollettino interromperà le pubblicazioni e la sigla sarà momentaneamente dimenticata sino al risveglio del movimento nel 1968.

La A cerchiata compare in Italia nel 1966, prima a titolo sperimentale, poi in modo più regolare, grazie alla Gioventù Libertaria di Milano, che aveva buoni rapporti con i giovani parigini. A Milano la sigla serve allora da firma dei giovani anarchici italiani. Viene usata sui volantini e i manifesti, talvolta insieme al simbolo pacifista-antinucleare e alla “mela” dei Provos olandesi. Si vedono ancora poche A cerchiate sino al 1968, ma nel 1972-73 la sigla si diffonde largamente grazie ai giovani libertari di tutto il mondo.

Anche l’Alliance Ouvrière Anarchiste ha rivendicato l’introduzione del simbolo, sostenendo di averlo utilizzato nella corrispondenza dalla fine degli anni Cinquanta; tuttavia, i primi esemplari si possono riscontrare sui bollettini dell’AOA solo dopo il giugno 1968.

In Italia la sua diffusione, favorita anche dalla testata di «A-Rivista anarchica» è stata rapida, sovrapponendosi sempre più frequentemente alla bandiere nere e rosso-nere e conoscendo numerose interpretazioni, soprattutto sull’onda della grafica punx e squatter.

Interessante notare come, in molti casi, l’A iniziale di autogestione comincia ad essere cerchiata, in una sorta di assimilazione semantica.

Di fatto, questo semplice simbolo grafico ha saputo approfittare del nuovo mezzo d’espressione rappresentato dalle scritte murali tracciate con lo spray, e la sua semplicità ne ha permesso un’esplosione globale: un successo imprevisto, plagiato e sfruttato anche come logo commerciale tanto che, se qualcuno avesse brevettato la A cerchiata, oggi potrebbe esigere diritti miliardari; ma, come è noto, non si può parlare di libertà (quella con l’accento sulla A!) senza rifiutare la proprietà privata.

 

BLOCCO SENZA SBOCCO: riflessioni sull’idiozia del blocco studentesco

Essendoci casualmente capitato per le mani il n. 19 del giornalino del Blocco Studentesco, ossia la struttura giovanilista di Casapound, è difficile sottrarsi alla tentazione di commentarlo, a partire dallo slogan: “Nessun compromesso bandiera nera!”.

Evidentemente, i redattori sono all’oscuro dell’avvertimento di Ezra Pound: “Gli uomini che vivono sotto il dominio di uno «slogan» vivono in un inferno creato da loro stessi”: quando si afferma una cosa, infatti, bisogna poi darne conto ed essere conseguenti.

Le parole hanno il loro peso, anche quando appaiono maldestramente offerte al lettore, come “passivismo” o “annichilazione”, mimando una cultura elitaria che lo faccia sentire inferiore.

Rifiutare il compromesso però è un programma impegnativo, tanto più se ci si dichiara nemici giurati del sistema.

Al contrario, prendersi i finanziamenti pubblici dal sindaco compiacente, sostenere la destra più borghese (vi ricordate l’on. Santanchè in tour elettorale a Casapound?) o sognare di entrare in parlamento come i camerati greci di Alba Dorata, significa essere già parte del sistema e della società dello spettacolo.

Tralasciando pure il dettaglio che la bandiera nera appartiene semmai alla storia della sovversione proletaria e dell’anarchismo, in contrapposizione e negazione del tricolore nazionale che tutte le componenti parafasciste sventolano con ardore; quello che più colpisce è quanto sia inconsistente l’identità ribellista che i giovanotti e le (rare) giovanotte di Blocco Studentesco cercano di attribuirsi.

Uno studente iscritto alla “classe dei combattenti”, a rigor di logica, dovrebbe in primo luogo rivoltarsi contro ogni potere e autorità, a partire proprio dalla scuola dove s’insegna disciplina e meritocrazia; invece, leggendo il giornaletto scopriamo che la “generazione” dei giovani ribelli dovrebbe “assumere il suo ruolo di colonna portante dell’istruzione e, di conseguenza, dello Stato”, a partire dalla difesa delle istituzioni “che uno Stato veramente degno di questo nome concepisce come primo fondamento della sua struttura”.

Analoga contraddizione è in materia d’economia, infatti appare davvero incomprensibile come si possa in una pagina accusare il governo italiano di favorire i capitali esteri e di svendere le società nazionali, mentre in altre pagine si sostengono sinistri figuri come Chavez, Putin e Bashar Al Hassad che, notoriamente, non hanno certo abolito i rapporti di produzione capitalistici, salvaguardando gli interessi delle multinazionali; tanto notoriamente che persino sullo stesso giornalino, poche pagine dopo, viene esaltato l’operato del boia Hassad che “in 10 anni di governo, ha quadruplicato il PiL della Siria grazie a delle sostanziali riforme di apertura agli investitori stranieri”.

Non casualmente, in Venezuela come in Russia e in Siria, i profitti sono cresciuti senza eliminare le diseguaglianze sociali, mentre sono aumentati i privilegi delle burocrazie statali e di partito.

Un soggetto che si ritiene rivoluzionario dovrebbe opporsi al dominio del capitale, sia questo liberista o di stato, invece queste controfigure non vanno oltre la denuncia verbale del ruolo delle banche similmente ai loro compari grillini, ergendosi a difesa della tradizione proprio di quell’Occidente che ha visto sorgere e svilupparsi il capitalismo che dicono di aborrire. Amano riferirsi alle comunità e ai popoli ma, alla prova dei fatti, continuano a dimostrarsi funzionali, al pari degli apparati polizieschi con cui sono collusi, offrendosi come guardie di frontiera e gendarmi dell’ordine costituito contro le insorgenze popolari.

 

 Complici di Germaine Berton