L’APOLOGO DEI DUE SACCHI

Work or riot, one or the other!
I  nostri nonni ci ricordavano che servono sempre due sacchi, uno per darle e uno per prenderle; ma, negli ultimi anni, il secondo si è andato facendo sempre più pesante e sbilanciato rispetto al primo.
Mercoledì 29 ottobre; risveglio tardivo per certa sinistra e certo sindacalismo: non solo è scaduto il tempo della concertazione, la polizia manganella persino gli operai della Thyssen che protestano pacificamente.
Doveva accadere in una piazza romana e coinvolgere i metalmeccanici, compresi alcuni dirigenti sindacali, perché fosse evidente l’attitudine squadrista dei governi “delle larghe intese” nella gestione del conflitto sociale.
In realtà, le cronache degli ultimi mesi registravano già un crescendo di aggressioni violente ed interventi polizieschi contro le lotte dei lavoratori, in particolare nel settore della logistica, accompagnate peraltro da atteggiamenti provocatori da parte del premier e della sua corte leopoldina.
Basti ricordare, tra i tanti episodi, le cariche contro i facchini presso la Coop Centrale Adriatica ad Anzola nel bolognese (22 marzo 2013); quelle contro il picchetto dei lavoratori della Granarolo a Bologna (25 giugno 2013) e le non meno dure ai danni dei lavoratori della Cogefrin presso l’Interporto di Bologna (21 novembre 2013).
La nomina di Renzi a presidente del consiglio è coincisa quindi con un ulteriore inasprimento della tensione e del ricorso alla forza pubblica, sotto la guida di un ministro dell’Interno come Alfano al quale non è rimasta altra risorsa per affermare la propria esistenza politica.
In questo 2014, la polizia è intervenuta coi soliti metodi contro i lavoratori e le lavoratrici degli “Appalti Storici” di Pomezia (19 febbraio), quindi sono seguite le cariche contro un picchetto all’Ikea a Piacenza (7 maggio), poi contro i facchini del CAAT a Torino (23 maggio) e poi nel milanese contro il picchetto dei facchini alla Dielle a Cassina de’ Pecchi (25 maggio). Altre manganellate contro un picchetto dei facchini alla Conor a Bologna (1 luglio) e le cariche contro i lavoratori della Mirror a Ferrara (3 ottobre).
Nel generale disinteresse dei media e dei politicanti, contro il diritto di lottare per difendere il proprio reddito rifiutando le forme moderne dello schiavismo salariato, lo stato da tempo cerca di terrorizzare preventivamente ogni espressione di rivolta, specie se vede protagonisti lavoratori italiani assieme a quelli migranti.  
Se poi il discorso si allarga alla repressione nei confronti di altri movimenti e soggetti dell’opposizione sociale ci si rende conto che, da Torino a Napoli, dalle occupazioni di case alle resistenze ambientali, ormai siamo ben dentro quella fase da anni prevista e pianificata dagli apparati polizieschi europei per far fronte alle insorgenze collegate all’aggravarsi degli effetti della cosiddetta crisi economica.
Il risveglio collettivo appare brusco e coglie impreparati i più, disabituati a pratiche e situazioni di piazza diverse da quelle della pace sociale e del dialogo con le istituzioni, ma le cose possono e, in parte, stanno già cambiando velocemente.
Si scopre così che il padronato – sino a ieri “mondo imprenditoriale” – è sempre lo stesso, che le contraddizioni di classe non solo esistono ancora, ma si radicalizzano di pari passo al peggioramento verticale delle condizioni di vita e lavoro, mentre i profitti e i privilegi di pochi crescono in modo esponenziale.
La persistenza del capitalismo, con le sue logiche distruttive e antiumane, torna quindi ad essere il problema dei problemi e persino le parole cominciano a cercare una coerenza di senso: gli “operatori della sicurezza” e i “lavoratori della polizia” vengono di nuovo riconosciuti come sbirri e trattati quali gendarmi al servizio del potere.
E’ un primo segno di consapevolezza, non tanto per incentivare lo scontro con le forze dell’ordine, ma necessario per meglio individuare la loro funzione, le cause della loro aggressività e i disegni reazionari a cui obbediscono, nonché attrezzarsi per un’adeguata autodifesa collettiva. 
Resta infatti valido l’avvertimento malatestiano: “Chi pecora si fa, il lupo se lo mangia”.

Altra Info

Ancora sulle rivolte inglesi – Corrispondenza da Londra

Well I’m running police on my back
I’ve been hiding police on my back
There was a shooting police on my back
And the victim well he wont come back

What have I done?

tratto da: “Police on my back” – The Clash

Corrispondenza di un compagno veneto da Londra

Credo che negli eventi di questi giorni ci sia di tutto un po’. Il giorno in cui la polizia ha ucciso Duggan a Tottenham, quando hanno parlato di uno scontro a fuoco in cui i poliziotti avevano risposto dopo che Duggan aveva sparato contro un poliziotto che si era salvato perché il proiettile aveva colpito la sua radio (tutto ciò sta cadendo…), la prima cosa che si sono premurati di fare è stato un appello alla calma generale. E’ la prima volta che mi capitava di sentire una cosa così, evidentemente gli apparati polizieschi erano consapevoli di essere in una situazione ‘pericolosa’. Un testimone aveva fin da subito detto che la polizia aveva sparato e ucciso a sangue freddo. Il ragazzo ucciso, aveva dei precedenti ed era armato, era però molto conosciuto nel quartiere. Il giorno dopo la morte di Duggan, c’è stata una dimostrazione di fronte alla stazione della polizia che per ore si è rifiutata di parlare ai famigliari della vittima. Pare che gli incidenti abbiano avuto inizio quando un poliziotto ha spinto o picchiato una ragazzina. Ad una prima lettura, i primi scontri erano una vera e propria rivolta contro la polizia, una reazione alle ingiustizie sbirresche. Questo è stato sicuramente l’elemento scatenante.

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Riot, rivolte e affini – Qualche considerazione sui fuochi Inglesi

 

La vittoria sarà di coloro che avranno saputo creare del disordine senza amarlo.

(G. Debord)

 

 

Svariate analogie o differenze si possono trovare guardando ad altre insorgenze (Brixton 1981, Los Angeles 1992, Parigi 2005), comunque nessuna analisi – politica, economica, sociologica – appare di per sé sufficiente a spiegare questa ennesima radicale rottura.

In un riot c’è sempre di tutto: disperazione e spasso, ribellione sociale e insofferenza esistenziale, rivendicazione di diritti negati e nichilismo,  protesta politica e illegalità comune, dinamiche di liberazione ed episodi di sopraffazione…

Se si eccettua l’incendio della Sony e il saccheggio di qualche negozio di lusso, per lo più le devastazioni riguardano gli stessi quartieri popolari dove abitano i protagonisti, al punto da far pensare più ad un’implosione piuttosto che ad un’esplosione. Si brucia l’auto del vicino di casa o si depreda il negozietto miserabile dietro l’angolo, mentre la City o Downing Street sono intoccate.

Come per le banlieue, la polizia s’impegna solo a ghettizzare le fiamme della rivolta, aspettando che si consumino dentro i suoi confini, lontano dai centri del potere.

Difficile per gli apparati di disinformazione ridurre il tutto a conflitto razziale, quando più colori e lineamenti si intravedono così chiaramente sotto fazzoletti e cappucci; ma problematico anche individuare un’unica appartenenza di classe e anche trovarvi una precisa logica antagonista: “Non c’è stato alcun ovvio bersaglio politico o istituzionale: niente multinazionali, niente banche, non il governo, nemmeno la polizia”  (Bill Emmott, La Stampa 10 agosto).

La crisi economica, la miseria, la disoccupazione, il taglio selvaggio del welfare, il crollo del mito della Big Society… certo, ma non solo. “Ci sono persone che non si sentono parte delle comunità in cui vivono. Vedono i negozi, le librerie e gli uffici come qualcosa che non gli appartiene, come un qualcosa di alieno. Sono tecnologicamente super-integrati ma emarginati dal punto di vista sociale. Una volta che si ha un evento-detonatore le cose precipitano, si muovono molto velocemente. Come uno stormo d’uccelli. Ogni individuo segue il comportamento del suo vicino di destra o di sinistra. Quello che stiamo vedendo per le strade di Londra non è un comportamento di gruppo che segue logiche tradizionali ma un atteggiamento che definirei elettronico, virtuale. Ecco perché gli stessi incidenti si replicano in modo identico in diverse parti della capitale e in altre città del Paese” (Rodney Barker, prof. della London School of Economics, intervista dell’Ansa).

D’altronde il tasso di disoccupazione britannica non è neppure dei peggiori: 7,7 % (rispetto all’8% in Italia, al 9,5% in Francia, al 9,2% negli Usa).

I benpensanti, senza volerlo, dicono la verità: “E’ tutto senza senso”. In Inghilterra e non solo, infatti, alla proletarizzazione e alla pauperizzazione crescenti si somma anche la perdita di senso non solo nella società del capitale ma persino nell’opposizione ad essa.

Sempre meglio i riot della pace sociale, viene spontaneo affermare; ma è necessario anche chiedersi se i disordini che si stanno sviluppando ovunque non stiano svolgendo la funzione di valvola di sicurezza proprio della pace sociale. Così come un tempo, ben vengano gli assalti ai forni se servono a scongiurare quelli ai palazzi: la grande borghesia non ha certo scrupoli morali a sacrificare la proprietà privata spicciola, dando i piccoli borghesi in pasto ai miserabili.

E chissà che risate si fanno i padroni di tutto, vedendo magari un ragazzo rischiare la galera per rubare un cellulare attraverso una vetrina infranta: domani sarà comunque un loro cliente. Per di più, sotto controllo.

 

Etciù Danke

 

Alcuni approfondimenti: Solidarity Federation – British Section of the International Workers Association