BLOCCO SENZA SBOCCO: riflessioni sull’idiozia del blocco studentesco

Essendoci casualmente capitato per le mani il n. 19 del giornalino del Blocco Studentesco, ossia la struttura giovanilista di Casapound, è difficile sottrarsi alla tentazione di commentarlo, a partire dallo slogan: “Nessun compromesso bandiera nera!”.

Evidentemente, i redattori sono all’oscuro dell’avvertimento di Ezra Pound: “Gli uomini che vivono sotto il dominio di uno «slogan» vivono in un inferno creato da loro stessi”: quando si afferma una cosa, infatti, bisogna poi darne conto ed essere conseguenti.

Le parole hanno il loro peso, anche quando appaiono maldestramente offerte al lettore, come “passivismo” o “annichilazione”, mimando una cultura elitaria che lo faccia sentire inferiore.

Rifiutare il compromesso però è un programma impegnativo, tanto più se ci si dichiara nemici giurati del sistema.

Al contrario, prendersi i finanziamenti pubblici dal sindaco compiacente, sostenere la destra più borghese (vi ricordate l’on. Santanchè in tour elettorale a Casapound?) o sognare di entrare in parlamento come i camerati greci di Alba Dorata, significa essere già parte del sistema e della società dello spettacolo.

Tralasciando pure il dettaglio che la bandiera nera appartiene semmai alla storia della sovversione proletaria e dell’anarchismo, in contrapposizione e negazione del tricolore nazionale che tutte le componenti parafasciste sventolano con ardore; quello che più colpisce è quanto sia inconsistente l’identità ribellista che i giovanotti e le (rare) giovanotte di Blocco Studentesco cercano di attribuirsi.

Uno studente iscritto alla “classe dei combattenti”, a rigor di logica, dovrebbe in primo luogo rivoltarsi contro ogni potere e autorità, a partire proprio dalla scuola dove s’insegna disciplina e meritocrazia; invece, leggendo il giornaletto scopriamo che la “generazione” dei giovani ribelli dovrebbe “assumere il suo ruolo di colonna portante dell’istruzione e, di conseguenza, dello Stato”, a partire dalla difesa delle istituzioni “che uno Stato veramente degno di questo nome concepisce come primo fondamento della sua struttura”.

Analoga contraddizione è in materia d’economia, infatti appare davvero incomprensibile come si possa in una pagina accusare il governo italiano di favorire i capitali esteri e di svendere le società nazionali, mentre in altre pagine si sostengono sinistri figuri come Chavez, Putin e Bashar Al Hassad che, notoriamente, non hanno certo abolito i rapporti di produzione capitalistici, salvaguardando gli interessi delle multinazionali; tanto notoriamente che persino sullo stesso giornalino, poche pagine dopo, viene esaltato l’operato del boia Hassad che “in 10 anni di governo, ha quadruplicato il PiL della Siria grazie a delle sostanziali riforme di apertura agli investitori stranieri”.

Non casualmente, in Venezuela come in Russia e in Siria, i profitti sono cresciuti senza eliminare le diseguaglianze sociali, mentre sono aumentati i privilegi delle burocrazie statali e di partito.

Un soggetto che si ritiene rivoluzionario dovrebbe opporsi al dominio del capitale, sia questo liberista o di stato, invece queste controfigure non vanno oltre la denuncia verbale del ruolo delle banche similmente ai loro compari grillini, ergendosi a difesa della tradizione proprio di quell’Occidente che ha visto sorgere e svilupparsi il capitalismo che dicono di aborrire. Amano riferirsi alle comunità e ai popoli ma, alla prova dei fatti, continuano a dimostrarsi funzionali, al pari degli apparati polizieschi con cui sono collusi, offrendosi come guardie di frontiera e gendarmi dell’ordine costituito contro le insorgenze popolari.

 

 Complici di Germaine Berton