Pacifisti, pacificati e pacificatori: nonviolenza e legalitarismo

Alcune considerazioni sulle pratiche di violenza e nonviolenza adottate nei cortei o imposte da taluni personaggi. L’articolo è stato scritto all’indomani dei fatti di Genova 2001.
Riflessioni da tenere presenti oggi più che mai nelle lotte in Val di Susa e non solo.

Si è parlato e straparlato a lungo, prima, durante e dopo Genova, di violenti e nonviolenza. Innanzitutto la questione viene sempre dibattuta in modo univoco. La non-violenza è agitata, in direzione di chi si solleva di fronte al potere, mai mettendo in questione il potere stesso. La “non-violenza” è proposta sempre come pratica unilaterale; essa deve riguardare solo quelli che si pongono di fronte ai poteri costituiti, mai i poteri stessi. Ma i poteri costituiti, altrimenti detto lo Stato, sono nati attraverso un processo di accumulo dei monopoli: la fiscalità, la moneta e la forza. La macchina statale è per definizione il luogo di massima concentrazione della forza, è l’istituto che si distingue da una banda qualsiasi perché può esercitarla in modo legittimo, ovvero attraverso la regola dell’autolimitazione. Di fronte alla critica nonviolenta, il potere statale è di per sé privo di legittimità perché intimamente violento e perché espressione della violenza dei forti.

Ma per i non-violenti italiani questa lezione non vale. Strano modo di rovesciare il segno di quella che pure è nata come forma radicalissima di lotta. Da momento di delegittimazione etica dei poteri costituiti, dei detentori del monopolio della forza legittima (“coercizione”, indicano con un eufemismo i manuali di diritto), viene fatta diventare strumento di selezione, delegittimazione e criminalizzazione di coloro che si ribellano contro i poteri costituiti. Vittorio Agnoletto, uno dei prendiparola più solerti e sponzorizzati da alcuni poteri mediatici forti, è uno dei maggiori campioni della caccia al diverso, al dissidente, in nome di quella che potremmo definire chiaramente come una forma di non-violenza autoritaria e ultraistituzionalizzata. Si è detto: “se pratichi la violenza, contro beni o contro terzi, mi fai violenza”, ma una volta accettata, la stessa logica vale anche all’inverso “se mi imponi la tua non-violenza, mi fai violenza”. Non credo che se ne esca, salvo un’accettazione reciproca di principio, che riconosca la pari legittimità delle due ipotesi e accetti il confronto, la sfida, sul terreno della competizione e persuasione degli argomenti e dell’azione.

Unico luogo di verifica che può attribuire l’egemonia. Ma ai sacerdoti della non-violenza nostrana ed ai loro prendiparola piace la scomunica e la ricerca del capro espiatorio più che il confronto. Aspiranti cardinali, Agnoletto ed altri, cercano legittimazione dalle istituzioni, ovvero dai titolari del monopolio della violenza legittima, e tra alcuni poteri forti presenti nei media. La non-violenza, come l’infamia (vedi la polemica sugli “infiltrati”) risultano solo pretestuosi argomenti d’agitazione impiegati in modo demagogico e fazioso per tentare di liquidare degli scomodi rivali politici. Storicamente i movimenti sociali sono sempre stati il prodotto d’una convivenza forzata, d’interesse o d’amore, tra queste due anime, tra queste due pratiche. A seconda delle circostanze l’una è prevalsa sull’altra. Movimento di massa e forza d’urto; minaccia del numero e violenza dell’atto; forza delle ragioni e ragioni della forza; spessore, imponenza, solidità e agilità, visibilità, incisività; guerra di posizione e guerra di movimento.

In Italia, con un malizioso malinteso, viene chiamata non-violenza un tipo di cultura politica che si è costruita sul rifiuto e sulle ceneri della violenza politica dei movimenti sociali sovversivi degli anni 70 e sull’accettazione della legalità, altrimenti detta l’esercizio del “monopolio legittimo della forza” da parte dello Stato. In questo caso siamo di fronte al vero e proprio stupro semantico d’un termine e di una pratica che ha ben altra storia e ben altre pretese, e che da sempre è nemica dello Stato e della sua legalità.

Viene definita non-violenza la semplice all’acquiescenza ordine costituito, il che vuol dire piuttosto sottomissione o comunque subalternità, domesticazione nei confronti di chi esercita il monopolio legale della forza.

Il primo requisito della nonviolenza è infatti la violazione della legalità attraverso forme di “disobbedienza civile” e non certo l’eticizzazione forzosa dell’accettazione del monopolio statale della forza legittima. Un’altra delle sue caratteristiche peculiari riguarda la sua natura ” extra-democratica”. La nonviolenza è al di fuori della logica inevitabilmente numerica delle molte accezioni del termine democrazia. Sovente la sua pratica investe esigue minoranze, quando non singoli. È una demagogia del corpo, esercitata da pochi verso molti, una sorta di parossismo della responsabilità personale.

Un altro equivoco largamente diffuso nasce dal fatto che un semplice cambiamento di segno e di direzione della violenza, non più offensiva o difensiva ma autoaggresiva, trasformi, per esempio, lo sciopero della fame in una pratica nonviolenta. Mettere in gioco il catabolismo del proprio corpo è, in realtà, violenza inaudita.
Mestre va al Pentagono: il mito del conflitto sociale a costo zero
La nonviolenza c’entra poco anche con le “guerriglie comunicative”, lo spostamento della guerra su forme e oggetti transizionali che la mimino in modo incruento, a bassa intensità. La novità introdotta dalle Tute bianche non viene, come da più parti è stato detto, dalla loro scoperta della comunicazione. Saper comunicare era già stato un assillo di molti gruppi e movimenti, combattenti e non, negli anni 70. L’effetto cassa di risonanza, le strategie e la volontà di usare i media e non farsi usare, risale a quegli anni e fu molte volte un successo, altre un boomerang.

Quello che non si capì per tempo fu quando i media smisero di fare da cassa di risonanza e cominciarono a suonare la gran cassa dell’emergenza, degli allarmi sociali a ripetizione che utilizzavano fantasmi e paure, ingenerando angosce e ansie artificiali, divenute il fondo di commercio del mercato politico. Semmai la differenza sta nel fatto che oggi la comunicazione è ricercata come una supplenza vitale al vuoto di contenuto. Si punta sul moltiplicatore mediatico per colmare la debolezza delle mobilitazioni. In passato la posta in gioco dell’informazione era successiva all’azione, riguardava il racconto, il senso da dare all’evento accaduto; oggi più spesso la comunicazione serve a creare l’evento fino a sostituirlo completamente.

L’originalità delle Tute bianche sta innanzitutto nel quesito iniziale a cui esse hanno poi dato successivamente una risposta censurabile. Ma la domanda era giusta: come rilanciare il conflitto, in un contesto che vede la nozione d’antagonismo delegittimata e criminalizzata? Come ripercorrere forme di lotta di classe percotanti, efficaci, rompendo l’accerchiamento, sfidando il disarmo ideologico che è seguito alla fine degli anni 70? Come tornare a fare lotte sociali e lotta di classe in modo trainante e vincente senza pagare lo scotto degli anni 70?

In primo luogo alcuni centri sociali sono diventate le Tute Bianche, ovvero hanno giocato sulla visibilità; ricorrendo ad alcune categorie d’analisi della composizione sociale postfordista, hanno voluto dare visibilità politica alla invisibilità sociale di settori del proletariato interinale. Ma soprattutto, mutuando una teoria che ricorda la strategia impiegata dal Pentagono durante la guerra del Golfo, le Tute bianche hanno elaborato una sorta di strategia della lotta di classe senza perdite, al minor costo sociale. Ciò nasce probabilmente dal loro bilancio degli anni 70 e dal tentativo di ricollocare una pratica conflittuale all’interno della realtà italiana della fine degli anni 80, dove il conflitto era largamente delegittimato, immediatamente criminalizzato e sanzionato. Ad essa si aggiunge una trasposizione quanto mai artificiale della guerra a bassa intensità e alto valorecomunicativo portata avanti dagli zapatisti in Chiapas. Ha preso piede così il ricorso a pratiche mimetiche, a forme di camuffamento politico, che hanno dato luogo ad una vasta panoplia di doppiezze che avrebbero fatto impallidire persino il Migliore: tra queste la non-violenza simulata, strategia escogitata pensando di potersi avvalere del carattere simbolico leggittimante dell’espressione “non violenza”. In realtà, non di nonviolenza era questione ma di scontro di piazza a bassa intensità e ad alta conflittualità comunicativa.

L‘antagonismo mediatico è caduto o voluto finire nella mascherata pattuita, nel gioco delle parti, nello spettacolo sociale dei falsi scontri e degli effetti d’annuncio. A forza di voler spettacolizzare per elevare il grado di simbolicità e ridurre il rischio di costi eccessivi in termini repressivi, le Tute bianche sono state assorbite completamente dalla spirale della rappresentazione spettacolare, confondendo realtà e finzione, col risultato d’annullare ogni reale consistenza sociale. Ha funzionato col centrosinistra grazie alle mediazioni e alle connivenze. Non funziona più con la destra che manda i carabinieri, i quali riconducendo di colpo lo spettacolo alla realtà alzano il prezzo facendo ridiventare il conto salato. Nello scenario di Genova questa strategia è stata devastante.

 

Nonviolenza simulata e mitopoiesis: una cattiva filosofia
“Sapevano cosa volevamo fare e avrebbero potuto permetterci di violare la zona rossa. La verità però è che sono stati i carabinieri a far saltare tutto”

Luca Casarini, Il Nuovo, 27 agosto 2001

 

Pedagogia del conflitto o semplice arguzia opportunistica? Forse entrambe. Certo la mitopoiesis e la non-violenza simulata, le carnevalate concordate con le forze dell’ordine per inscenare teatrali quanto fittizî momenti di scontro ad uso e consumo delle videocamere televisive13, hanno costituito una pessima risposta ad una buona domanda. Finché il centrosinistra è stato al governo importanti margini di negoziazione hanno garantito la sopravvivenza puramente estetica di questa “guerriglia comunicativa”, ma a partire da Napoli, nel marzo 2001, quando era ancora in piedi il governo Amato, gli spazî si sono chiusi e a Genova è venuta brutale la conferma della svolta. Lo scimmiottamento della dichiarazione di guerra fatta dagli zapatisti, ricopiata parola per parola, immagine per immagine, avrebbe potuto farci sorridere di fronte a tanta ingenuità politica, se non fosse che sull’asfalto c’è rimasto Carlo, e che biecamente si è alimentata una campagna di linciaggio contro una componente del movimento. Polemica tanto più sterile, pretestuosa e mistificatoria, quanto più gli scontri hanno visto protagoniste migliaia di persone, la cui maggioranza era raccolta dietro il corteo dei disubbidienti e non tra le fila del Black block.

tratto da: http://www.geocities.com/comunautilus/interventi/odradek.htm