CENTO ANNI FA: LA PRIMA GUERRA DI LIBIA

Corsi e ricorsi della storia… se nel 1911 la spedizione libica – prima atto della guerra italo-turca con la sua estensione nell’Egeo – coincise con il celebrato 50° anniversario della Unità d’Italia, oggi a ridosso delle commemorazioni tricolori per il 150° lo Stato italiano torna ad essere coinvolto in un’impresa neocoloniale in terra di Libia.
A seguito del Congresso di Berlino che nel 1878 aveva visto la spartizione tra Francia e Gran Bretagna dei territori di Tunisia e Cipro a spese dell’Impero Ottomano, nel 1902 era intervenuto un accordo diplomatico segreto tra Francia e Italia che lasciava quest’ultima libera d’impadronirsi della Cirenaica e della Tripolitania.
Dalla fine del marzo 1911, la stampa italiana aveva quindi intensificato la campagna d’opinione interventista e colonialista. Nella notte tra il 26 e il 27 settembre, il governo italiano presentò un ultimatum di resa al governo ottomano. Tramite l’Austria-Ungheria, il Sultano propose il trasferimento pacifico della Libia sotto amministrazione italiana, senza combattimenti, con il mantenimento della formale sovranità ottomana; ma Giolitti rifiutò e, il 29 settembre, venne dichiarata la guerra; paradossalmente, fu sostenuto che la risposta all’ultimatum era giunta con un ritardo di due ore. Già il 29 settembre 1911 si verificò un primo scontro navale, ma la vera aggressione italiana ebbe inizio il 3 ottobre quando una flotta comandata dall’ammiraglio Faravelli bombardò le vecchie fortificazioni di Tripoli distruggendole, quindi tra il 4 e il 5 ottobre 1911 le truppe italiane sbarcarono rispettivamente a Tobruk e Tripoli. La conquista della “quarta sponda” si dimostrò subito tutt’altro che una passeggiata: la popolazione, al contrario delle previsioni, non accolse gli italiani come liberatori. Nel sobborgo tripolino di Sciara Sciat il 23 ottobre 1911 reparti di fanti e bersaglieri italiani furono annientati in un’imboscata tesa da gruppi di partigiani libici guidati da ufficiali turchi. Nei giorni seguenti, in un’altra zona periferica della capitale, a El-Messri, oltre 700 soldati italiani colti di sorpresa furono uccisi. La repressione italiana fu durissima: la città venne messa a ferro e fuoco e migliaia di libici furono fucilati o impiccati per rappresaglia e circa 4/5000 furono deportati al confino in Italia.
Nel novembre avvenne il primo bombardamento aereo della storia, quando da un monoplano Taube il tenente Gavotti lanciò alcune bombe a mano su un accampamento ottomano a Ain Zara.
Il conflitto durò molto più a lungo di quanto preventivato dal governo italiano, con una spesa di 80 milioni di lire al mese invece dei 30 milioni previsti e la conclusione della guerra vide nient’altro che la formalizzazione della proposta del Sultano, ossia la Turchia conservava la sovranità formale sulla Libia ma demandava all’amministrazione italiana il controllo, anche militare, della fascia costiera tra Zuara e Tobruk (Trattato di Losanna del 1902), anche se le resistenze armate all’occupazione italiana sarebbero durate sino agli anni Trenta quando furono spietatamente stroncate sotto il governatorato di Badoglio e Graziani.
Per il colonialismo italiano l’occupazione e il controllo del territorio si dimostrarono infatti più complicate di quanto ritenuto dai generali, a causa della combattività delle truppe turche prima e delle formazioni guerrigliere libiche dopo. Tra il 1913 e il 1914 la presenza del regio esercito si estese alla Tripolitania settentrionale e il colonnello Miani guidò una colonna di ascari eritrei fino al Fezzan. Ma alcune sconfitte nell’inverno 1914-15 e lo scoppio della Prima guerra mondiale costrinsero gli italiani a ripiegare sulla costa, tenendo saldamente alcune località come Tripoli, Zuara e Homs in Tripolitania, Bengasi, Derna e Tobruk in Cirenaica. I territori interni, invece, vennero, di fatto, governati da alcuni notabili locali in Tripolitania e dalla Senussia (organizzazione religiosa e politica mussulmana) in Cirenaica.
Per debellare la resistenza libica furono impiegati tutti i mezzi militari (aerei, blindati, artiglierie) compreso il ricorso ad armi chimiche letali (quali iprite e fosgene) e a “soluzioni finali” come la deportazione dell’intera popolazione del Gebel e il suo internamento in tredici campi di concentramento.
Prima dell’inizio dell’impresa libica in Italia si manifestarono forti correnti interventiste, con una convergenza di interessi fra la borghesia settentrionale, che vedeva un intervento come l’occasione per allargare i mercati per i prodotti agricoli e, soprattutto, industriali, ed il proletariato agricolo del sud, che vedeva nella Libia, descritta come terra generalmente fertile, un’occasione per ridurre la piaga dell’emigrazione. Altre spinte all’espansionismo erano connesse alla penetrazione del Banco di Roma -legato alle finanze vaticane- avviata in Tripolitania fin dal 1907.
Per rendere popolare l’entrata in guerra fu addirittura scritta e lanciata una canzone (A Tripoli!, anche se più nota come Tripoli bel suol d’amore) e si mobilitò gran parte del mondo culturale e artistico.
La motivazione prevalente era quella attorno alla necessità di dirottare i rilevanti flussi migratori con meta gli Stati Uniti, l’Argentina, la Francia , la Svizzera … verso i nuovi territori da popolare, coltivare, civilizzare e annettere al Regno d’Italia. All’affermazione di questa idea di colonialismo o imperialismo “sociale” contribuirono intellettuali laici e cattolici, sia legati alla destra nazionalista che alla sinistra (soprattutto al socialismo moderato, ma anche qualche esponente “estremista”).
Il poeta Giovanni Pascoli, famoso per elegie ben più miti, scrisse un discorso commemorativo (La grande Proletaria si è mossa) in cui si raffigurava l’Italia come “la grande martire delle nazioni”, rivendicando il “suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari”, non senza accenti razzisti all’indirizzo di “Berberi, Beduini e Turchi”. La formula di tale propaganda, apparentemente a favore dei migranti italiani, era quella di trasformarli da proletari oppressi in proletari oppressori di popoli ritenuti incivili, nonché di legittimare come opera civilizzatrice il saccheggio delle risorse di un Paese aggredito.
Anche i futuristi si schierarono in gran parte a favore della conquista coloniale; Marinetti, inizialmente contrario, partecipò al conflitto come corrispondente del quotidiano parigino «L’Intransigeant», esaltando la “grande ora futurista d’Italia, mentre agonizza l’immonda genìa dei pacifisti”. Al contrario, il futurista anarchico Gian Pietro Lucini fin dall’anno precedente si era dissociato da tale febbre interventista scrivendo al segretario di Marinetti: “Il Futurismo non è più un’audacia è una bruttissima e sanguinosa realtà tripolina. Non posso oggi fare il macellaio: perciò il Futurismo non mi serve più, assolutamente”.
In ambito politico a favore della guerra, oltre al liberale Giolitti a capo del governo che sfruttò politicamente l’impresa militarista oltremare, si schierò un “partito trasversale” comprendente forze cattoliche, nazionaliste ed anche progressiste. Tra i principali esponenti social-riformisti si distinsero per il loro interventismo Bissolati, Bonomi e Alberto Malatesta, mentre la sinistra del Partito socialista si pronunciò in totale opposizione con Bombacci, Mussolini e Caetani, cosi come l’allora repubblicano Nenni e il liberal-democratico Caetani.

Anche il sindacalismo rivoluzionario vide la divisione interna tra una corrente interventista (Orano, Olivetti, Pannunzio e, in un primo momento, Arturo Labriola) per la quale la guerra rappresentava l’anticipazione di una lotta di classe mondiale tra nazioni proletarie e capitaliste, e quella maggioritaria su posizioni decisamente  anti-interventiste, tanto che il Comitato nazionale dell’Azione Diretta sostenne lo sciopero generale del 27 settembre contro la “guerra di brigantaggio” (definizione di De Ambris) e dove più forte era l’influenza sindacalista rivoluzionaria l’agitazione andò oltre la durata di 24 ore come aveva proclamato la CGL , mentre gruppi di lavoratori attuarono azioni di boicottaggio contro la partenza dei militari.
Alle manifestazioni antimilitariste dettero il loro rilevante contributo anche gli anarchici che, salvo l’eccezione interventista rappresentata da Libero Tancredi (ossia Massimo Rocca), non ebbero dubbi da che parte schierarsi, in sintonia con quanto sostenuto da Errico Malatesta nel numero unico « La Guerra Tripolitana » (aprile 1912): “Oggi che l’Italia va ad invadere un altro paese e sulla piazza del mercato di Tripoli si erge e strangola la forca di Vittorio Emanuele, nobile e santa è la rivolta degli arabi contro il tiranno Italiano. Per l’onore d’Italia, noi speriamo che il popolo italiano rinsavito, sappia imporre al governo il ritiro dall’Africa; e se no, speriamo che gli arabi riescano a scacciarlo”.
All’alba del 30 ottobre 1911 a Bologna, nel cortile della caserma Cialdini affollato da reparti di fanteria, poco prima del discorso di saluto alle compagnie in partenza per la Libia , il tenente colonnello Stroppa veniva ferito da un colpo di fucile sparato da un soldato di leva.
Il responsabile dell’atto di “insubordinazione con vie di fatto verso superiore ufficiale” era Augusto Masetti, muratore di San Giovanni in Persiceto già immigrato in Francia per lavoro, che era stato richiamato in servizio militare il mese precedente e sorteggiato la sera prima per partire alla volta della Tripolitania: ironia della sorte, era stato l’ultimo estratto della 7ª compagnia del 35° reggimento. Secondo le testimonianze, prima di venire bloccato mentre stava ricaricando l’arma, Masetti avrebbe gridato “Viva l’anarchia, abbasso l’esercito!” e, rivolto ai commilitoni, “Fratelli, ribellatevi” (o “Compagni, ribellatevi”), forse sperando in una sedizione solidale. Nei concitati momenti del fermo avrebbe anche sostenuto di aver “voluto vendicare i compagni che cadono in Africa” e di essere un “anarchico rivoluzionario”. L’impegno anarchico di Masetti, sino a quel momento, si era limitato alla diffusione della
stampa antimilitarista e all’attività sindacale nell’ambito della Camera del Lavoro di S. Giovanni in Persiceto; ma il fragore della sua fucilata superò immediatamente le mura di quel cortile, esplodendo nel problematico contesto determinato nella società italiana dall’intervento militare oltremare.
Masetti che, in base al codice militare rischiava la fucilazione, col suo spontaneo ma determinato gesto di rivolta impose quindi a tutte le parti in causa scelte di campo precise e coerenti, sia sul piano etico che quello politico. Per le destre divenne perciò pretesto per inconsulte manifestazioni nazionaliste e monarchiche, nonché belliciste e forcaiole; mentre a sinistra dette modo alle forze contrarie alla guerra coloniale di raccordarsi ed intensificare la mobilitazione antimilitarista, per il ritiro delle truppe italiane dall’Africa e per sottrarre il “soldato ribelle” prima al plotone d’esecuzione e poi alla segregazione nel manicomio criminale di Montelupo. Come scritto da Malatesta “c’è per tutti costoro una battaglia da fare (…) Tutti quanti fanno professione d’una idea di libertà, sorgano a salvare Augusto Masetti. Il proletariato organizzato pensi che Masetti, era uno dei suoi e che per lui si è sacrificato”. Tale
esteso movimento di protesta riuscì solo parzialmente a difendere Masetti, comunque costretto a lunghi anni di detenzione, ma fu alla base della nascita dell’Unione Sindacale Italiana nel 1912 e dell’insorgere della Settimana Rossa nel 1914.

Liberamente tratto da Umanità Nova nn. 10 e 11/2011

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