MARTINA GUERRINI
DONNE CONTRO
Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale
Zero in Condotta, Milano, 2013 – pag. 82 con foto – Euro 7
Dalle prime sovversive che contrastarono lo squadrismo, alle operaie ribelli al regime, passando dalle militanti della cospirazione clandestina sino alle partigiane che seppero impugnare anche le armi, il fascismo dovette fare i conti con donne che non accettarono di sottomettersi al ruolo sociale e all’ideologia sessista che le voleva soltanto prolifiche e ubbidienti “giovani italiane”.
A rovesciare tale subalternità, sostenuta dallo stesso Mussolini, fu una capacità di autodeterminazione che un ventennio non riuscì a vincere; dalle tante piccole storie di opposizione nascoste tra le “anonime” schedate del Casellario Politico, vengono infatti alla luce biografie di donne pronte a provocare la morale e la cultura dominanti.
Tale irrisolta contraddizione di genere emergerà anche all’interno delle formazioni partigiane e, successivamente, nella storiografia resistenziale che opererà una rimozione nei confronti delle combattenti e delle prospettive di radicale liberazione che perseguivano.
Per richiesta copie e contatto con l’autrice: zeroinc@tin.it
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UN LIBRO STRIDENTE: DONNE CONTRO
C’erano le armate, le donne armate, eccome c’erano! Ciascuna di noi sceglieva.
Lucia Boetto Testori, partigiana piemontese.
Secondo la storiografia ufficiale la Resistenza sarebbe nata l’8 settembre 1943 per concludersi il 25 aprile 1945, ma in realtà la guerra civile era iniziata nel 1919 e, non casualmente, la prima vittima fu Teresa Galli, giovane operaia socialista, uccisa a Milano il 15 aprile di quell’anno nella prima aggressione squadrista con Mussolini mandante.
Appare peraltro sempre più chiaro ed anche storicamente accertato che le Resistenze al fascismo sono state politicamente e socialmente molteplici, animate e attraversate da differenze di idee, di classe ed anche di genere.
Quest’ultima realtà, in particolare, dopo una lunga rimozione o minimizzazione, negli ultimi anni ha conosciuto sì un inedito interesse per il protagonismo femminile, ma quasi sempre condizionato da letture e interpretazioni storiografiche tendenti ad inquadrare e rendere compatibile questa esperienza – di forte rottura – dentro un quadro più rassicurante.
Così, in parallelo con lo stereotipo del guerriero maschio nella sua variante partigiana, si è voluto appiattire la lotta delle donne antifasciste nel ruolo di staffette e, comunque, di fiancheggiatrici della lotta armata in quanto “naturalmente” estranee alla pratica della violenza.
Eppure, sia nella storia italiana che nelle lotte proletarie, non era lontano un passato di donne che, sulle barricate o negli scioperi, erano state attrici di primo piano del conflitto e della rivolta contro l’autorità, “senza chiedere il permesso” degli uomini.
Così avvenne anche per tante donne guerrigliere, lungo le insidiose strade cittadine o alla macchia su aspri sentieri alpini, decise ad affermare, assieme alla loro opposizione al dominio e alla guerra fascista, pure la propria indipendenza nella vita e nella società, fuori dagli schemi del regime ma anche del patriarcato “di sinistra”.
Peraltro questa volontà si riscontra sin dal sorgere dello squadrismo e dell’ideologia mussoliniana, durante l’intero e tetro Ventennio, incrinato dal dissenso aperto o sommerso, clandestino o plateale, di tutte quelle donne – oltre cinquemila – che finirono schedate dalla polizia nel Casellario politico centrale.
Sovversive militanti o anonime popolane, vennero ritenute pericolose per l’ordine costituito, anche per il “cattivo esempio” che offrivano per le giovani che dovevano crescere nella vocazione all’obbedienza e al focolare domestico. Per questo, oltre all’essere inquisite come “nemiche interne” vennero puntualmente additate come donne di “pessima condotta morale” o di riprovevoli “facili costumi”.
Risulta quindi particolarmente interessante e tutt’altro che inattuale l’analisi dello sguardo sessista che “fotografava”, con stigma criminalizzante e perbenista, quelle donne che, più o meno consapevolmente, anche solo con il manifestare la propria libertà sabotavano il sistema oppressivo fascista.
Analisi che l’autrice, prendendo come campione significativo le donne di Venezia schedate da parte degli organi repressivi, mette bene in evidenza disarticolando il paradigma discriminante messo in atto dal funzionario di questura. Quello stesso tutore dell’ordine, sotto la cui uniforme o camicia nera traspariva la mentalità maschilista ma anche il moralismo cattolico e la difesa della tradizione familista, nonostante lui stesso fosse un abitudinario frequentatore dei bordelli che il regime proteggeva e incentivava a favore della maschia gioventù del littorio.
Non di meno, appare pertinente la riflessione critica attorno al “mito” della resistente non-violenta ma pure la messa in discussione della tesi che vuole il protagonismo delle partigiane quale ricaduta in positivo della propaganda patriottica e militaresca svolta dal fascismo, negando quindi la loro autonomia di pensare e scegliere di vivere “contro”, come passaggio necessario per una liberazione che certo non poteva essere solo quella nazionale o limitarsi alla conquista formale dei diritti democratici.
Per questo si tratta di un libro stridente, rispetto a molte interpretazioni che vanno per la maggiore anche nei contesti che si richiamano alla resistenza e all’antifascismo, ma anche nei confronti di alcuni settori femministi preoccupati più di interloquire con la politica istituzionale che di approfondire la rivolta.
Un libro necessario proprio per il suo stridere, in antitesi con le troppe accondiscendenze che certo non aiutano a ri-aprire prospettive da respirare come aria libera di montagna.
Archivio antifascista