GIU’ LE MANI DA MARIA!

Da giorni in Italia è in atto l’ennesima, preoccupante, campagna di odio antizigano, fomentato ad arte da trasmissioni sedicenti “di servizio pubblico”, rotocalchi di intrattenimento, telegiornali, quotidiani… Sappiamo che quando parliamo di rom, in questo paese che impedisce ai superstiti dei naufragi di Lampedusa di partecipare ai funerali, lo stato d’animo non è neutro. Questa non è una sensazione, ma una consapevolezza accertabile attraverso la frequentazione delle associazioni di solidarietà con le comunità romanés, la conoscenza e l’informazione attraverso le pubblicazioni, i testi di ricerca, le statistiche delle condizioni drammatiche nelle quali le famiglie rom sono costrette a sopravvivere a causa delle politiche istituzionali locali e nazionali, con la complicità di un razzismo popolare forse senza precedenti. Chi pretende di informare, chi si assume l’onore di fare informazione in Italia ha il doppio onere di essere informato e di trasmettere correttamente le notizie, senza allusioni o esplicite affermazioni di razzismo. E’ stato sostenuto, in una trasmissione televisiva della tv di Stato, che la bambina sarebbe stata rapita da un network di trafficking di minori con sede in Bulgaria, e che sarebbe stata successivamente comprata dalla famiglia rom per “purificare la razza” della comunità romanés. Spesso vediamo, nell’ “altro” da “noi”, lo specchio di ciò che siamo… Niente di quanto è stato sostenuto, con la presunzione e la certezza della Verità granitica, ha ancora alcun fondamento. Un’ipotesi come un’altra, ma che sembra “pesare” più di altre, scartate a priori. L’immagine di Maria e l’utilizzo del suo corpo mediatizzato e strumentalizzato secondo costruzioni comunicative che alludono, spingono a prendere parte, a parteggiare per i bravi (la polizia che l’ha “salvata” dagli “aguzzini”) contro i cattivi (la famiglia rom), denota il contrario della sensibilità dovuta in presenza della salvaguardia di un minore: le foto contrapposte della piccola con i capelli arruffati e le treccine più scure del biondo dei capelli e le manine sporche, contrapposta a quella della bambina “ripulita” dei segni del suo passato “vergognoso”, con il vestitino nuovo e i capelli completamente biondi, al sicuro nell’associazione di affidamento, quasi a voler “smacchiare” una colpa. E’ forse una colpa essere poveri? No, non lo è. E’ una condizione sociale, non una condizione dello “spirito”, né ontologica, né tantomeno “innata”, proprio come la razzista equazione che sta nuovamente passando con ciò che è conosciuto per “linea del colore”: una piccola bionda non può essere figlia di genitori rom. E’ talmente “normale” l’orrore della “razza” che in questi giorni stanno moltiplicandosi, in Europa, massicci controlli nei confronti di famiglie rom con minori “bianchi”. Qualcuno ha forse pensato, riflettuto sul fatto che questi controlli non sono affatto “normali”, né basati su alcunchè di scientifico? Al contrario, a seguito dell’oggettivazione del corpo di Maria – il corpo del reato – cresce l’accanimento poliziesco e razziale verso una minoranza vittima di molti olocausti, piccoli e grandi, nella storia passata e recente di una rilevante parte del mondo. Questo è l’orrore, questo ritorno del passato con gli abiti ipocriti di chi dice di voler tutelare i diritti dei più deboli, sbattendo i mostri in prima pagina: le foto di fronte e di profilo dei due rom del campo greco sulle televisioni pubbliche italiane. Foto terribilmente simili a quelle dei perseguitati del Casellario Politico fascista e dei reclusi nei campi di sterminio nazisti: in entrambi questi elenchi dell’abominio troverete volti di donne e uomini rom. Colpevoli di vivere secondo regole non scritte, colpevoli di essere poveri e di vivere in “discariche” a cielo aperto: non-luoghi nei quali le istituzioni nazionali li costringono a vivere, senza assistenza e lontani dal centro delle città, in periferie abbandonate e prive di mezzi di trasporto. I rom hanno molti doveri per lo Stato italiano, ma nessun diritto. Sono in maggioranza italiani, ma sono trattati peggio che se fossero stranieri. Sappiamo che la costruzione dell’immaginario passa attraverso i corpi, e attraverso le modalità con le quali alcuni corpi contano più di altri, e vengono “raccontati” con differenti “marcature”. Così la cameretta di Maria, in ordine, pulita e ben arredata, è elemento di sospetto in una famiglia poverissima. In un mondo colmo di pregiudizi, questo è ciò che il nostro “sguardo” vuol vedere. Così la giovane e coraggiosa Leonarda, pronta a percorrere la propria strada di autodeterminazione in Francia anche contro le violenze subite in famiglia, viene obbligata a scegliere tra ciò che è ritenuta essere la “sua razza” (la sua famiglia romanés, espulsa in Kosovo) e il cosiddetto diritto/dovere di studio, magari per diventare “una brava francese”. E magari per vergognarsi, in futuro, di avere genitori “rom”. Si parla tanto di aiutare le donne a denunciare chi le stupra e molesta: lo Stato francese si è reso complice della violenza contro Leonarda, spingendola a ritrattare le precedenti accuse verso il padre, a causa dell’attacco del governo francese contro la sua famiglia. Ma l’utilizzo del sessismo per politiche razziste e del razzismo per attacchi sessisti, noi, lo sappiamo riconoscere. Noi sappiamo da che parte stare. La piccola Maria non è figlia “biologica” di chi l’ha comunque accolta e nutrita, pur in povertà. I motivi per i quali la bambina è cresciuta in quella famiglia rom possono essere tantissimi. La tv di Stato e quella privata hanno già decretato il verdetto. Noi stiamo con Maria, con Leonarda e con il popolo rom.

Osservatorio antidiscriminazioni

GIAMPIETRO BERTI, HOMME D’ETAT

Nico_Berti_couv_FRNotevole l’articolo del Luminoso Professore Giampietro Berti su quel quotidiano farlocco che già nel nome esprime la sua intrinseca inessenzialità: Il Giornale [l’articolo trash lo trovate qui].

Il millantatore di filosofia nonché autore dell’imprescindibile intervento scrive che comunismo, fascismo e nazismo sono nemici giurati della modernità e della società aperta. In Italia Croce e Gentile hanno seppellito il pensiero scientifico – continua – e con quali conseguenze!

Per fortuna, seppellendolo, sono scivolati nella fossa…

La punta più alta di cretinismo teorico, tuttavia, fa il suo ingresso quando l’autore rimpiange “il lascito illuministico e positivistico di Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca”, tra gli altri.

Ora, ditemi voi se si può rimpiangere Gaetano Mosca senza rischiare di essere picchiati fino a sputare anche l’ultimo rivolo di sangue sul selciato. Ci mancava proprio, oggi, un ideologo della teoria delle élites!

Lasciamo perdere Mosca, ma Pareto, invece, è il vero capolavoro! Il sostenitore del fascismo italiano (non potè sedere nel parlamento dei manganelli solo per questioni di salute, nonostante la stima personale del duce) nonché illustre esponente del marginalismo economico assieme a Pantaleoni, altro estimatore di Mussolini, è anche uno dei teorizzatori dell’esproprio dei mezzi di produzione a favore di uno Stato collettivista nel quale i proprietari potessero svolgere il ruolo di “funzionari”. Immaginò la curva di indifferenza per permettere alla nostra attuale “scienza” economica di bivaccare, come i manipoli dell’epoca, senza sensi di colpa sui corpi ridotti a merce della nostra bella società aperta, imponendo il postulato dell’inconfrontabilità interpersonale delle utilità.

La falsa coscienza schizofrenica da amatore appassionato del capitalismo non lascerà Berti impunito questa volta!

Ti abbiamo scoperto, lubrico mercante dell’autoritarismo libertario!

La classe operaia non avrà pietà per questo fedele uomo di Stato!

Alcuni affiliati – Società segreta “L’Arrotino”

GIORNALISMO DA ULTIMA SPIAGGIA

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Considerando ormai “fuori gara” i cronisti filo-Tav de «La Stampa», tra le innumerevoli prove di quanto il giornalismo asservito può scendere in basso, quest’estate merita senz’altro una citazione l’articolo comparso alla vigilia di Ferragosto su «Il Giornale» dal titolo “Dalla Tav al Salento il «popolo del No» non va mai in ferie”, a firma di Nadia Muratore, giornalista con un curriculum davvero degno di nota: da collaboratrice di «Polizia moderna» a responsabile dell’ufficio stampa dell’ex ministro Calderoli.
Francamente, va riconosciuto che è difficile concentrare in così poco spazio tante banalità, ben oltre le frontiere del ridicolo, senza alcun altro scopo che cercare di gettare discredito su “l’ultima moda degli antagonisti” che, accipicchia, “paralizzano la crescita”.
L’apertura dell’articolo è classicamente ispirata al paternalismo e deve molto, in fatto di astio e categorie, sia a quel genio di Brunetta (per quanto riguarda gli studenti) che a Grillo (per le accuse verso i pensionati e i pubblici dipendenti).
La tiritera è talmente campata in aria da far arrossire, ma vale la pena riprenderla. Da chi è dunque composto questo “popolo del Non fare”? Risposta: da “Studenti fuori corso – per lo più bamboccioni – impiegati frustrati (…) e pensionati nostalgici”.
A seguire, la “giornalista” cuneese cerca di colpevolizzare e dileggiare comportamenti che qualsiasi persona di buon senso non troverebbe affatto riprovevoli: “arrampicarsi sui tralicci dell’alta tensione, rischiando anche la vita per il proprio ideale” o scegliere di partecipare ad un campeggio di lotta, piuttosto che sprecare le proprie ferie su qualche affollata spiaggia adriatica.
E per cercare di togliere valore etico a queste scelte, la Muratore giunge a insinuare che chi sale su un traliccio lo fa per le telecamere e, quindi, per mero esibizionismo.  Eppure è abbastanza ovvio che simili forme di protesta servono certo ad attirare l’attenzione dei media, ma non su chi le compie, ma bensì sulle ragioni di chi si oppone, e se prima di scrivere simile sciocchezze, la signora si fosse presa la briga di intervistare quei “pirla” di Luca Abbà e Turi Vaccaro, magari avrebbe imparato qualcosa sull’azione non-violenta.
Chissà, forse, le sono bastate le fondamentali lezioni di Bossi sui metodi gandhiani…
A conferma, peraltro, del povertà dei suoi argomenti, cerca pure di scovare presunte contraddizioni nel comportamento di questi bambini capricciosi; impareggiabile l’accusa di soggiornare in tenda in Valsusa d’estate invece che… “d’inverno, quando nevica”(!). E, per far apparire ancora più tremendi questi campeggiatori arriva a scrivere che giungono “con le pietre e le molotov nel sacco a pelo”(!!).
D’altronde, una giornalista che pretende di scrivere di Tav, confondendo l’Alta velocità con l’Alta tecnologia, si commenta da sola.
Eppure, andando oltre le abusate argomentazioni da sindrome Nimby (termine che però forse non conosce), costei qualche spunto di riflessione sulle ragioni di tanti “No” potrebbe trovarlo con facilità pure in rete. Ad esempio, ha mai sentito dire che a Chiomonte la costruzione del cantiere Tav ha già causato l’abbattimento di oltre 5 mila alberi e la rovina del sito archeologico? Conosce la documentazione sulle conseguenze per la salute delle emissioni elettromagnetiche del sistema di comunicazioni Muos? Casualmente, ha saputo che anche il contestato rigassificatore off-shore nel mare di Livorno comporterà per gli utenti un aumento della bolletta da pagare? Per caso, infine, è mai stata colta dal dubbio che lo stato di polizia e il dramma del carcere esistono non solo per il padrone del giornale su cui scrive?
Ma è probabile che dietro le “verità assolute” di questa dispensatrice di malafede, mai vista sorridere, ci sia un’inconfessabile isteria indotta dal vedere che migliaia di persone continuano a pensare, muoversi e resistere, fuori dal controllo dei partiti e contro i governi della devastazione e del saccheggio ambientale.
Tanto vale allora rassegnarsi, magari tornando ai reportage sul Palio delle galline.
Altra Info

GIANNI DE GENNARO PATRIMONIO DELL’UNESCO?

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Immagine tratta dal sito web Quink

Rilanciamo su questo blog l’articolo di Comidad “GIANNI DE GENNARO PATRIMONIO DELL’UNESCO?” http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=559

La cattiva gestione dei reperti archeologici di Pompei è stata motivo per l’agenzia ONU Unesco di minacciare il ritiro della qualifica di “Patrimonio Culturale dell’Umanità” per questa area. Per fortuna, un miliardario filantropo statunitense, David W. Packard, con la sua fondazione Packard Humanities Institute, è giunto in soccorso delle autorità italiane con progetti modello, come quello per Ercolano, diventando un interlocutore stabile del ministero dei Beni Culturali. La fondazione filantropica ha stabilito la sua sede proprio in Italia, a Pisa, per consentire un impegno continuativo. L’attività filantropica di Packard è stata celebrata con entusiasmo dal quotidiano “Il Sole-24 ore”.
Packard, nel suo slancio filantropico, non si occupa però solo di Beni Culturali, ma anche di politica estera, sostenendo lo sforzo delle neonate democrazie dell’Europa dell’Est. Insomma, è nato un vero e proprio impero filantropico Packard, che si sta affiancando agli imperi, altrettanto benemeriti, di George Soros e di Bill Gates.
David Packard è il figlio di uno dei fondatori del colosso informatico HP. David Packard padre svolse anche la funzione di vicesegretario alla Difesa nell’Amministrazione Nixon. Il fatto che l’industria di Packard fosse uno dei maggiori fornitori della Difesa non impedì dunque al magnate di andare a servire il proprio Paese nella veste di viceministro, poiché, in quella civiltà superiore, neppure si pone la possibilità di un conflitto di interessi. Si potrebbe dire che è roba di quaranta anni fa, tanto più che Packard padre ha fatto improvvisamente mancare i suoi preziosi servigi al mondo nel 1996. Invece la HP, appena nel giugno scorso, ha ottenuto dal Pentagono due contratti miliardari, uno per l’Esercito e l’altro per la Marina, che la terranno impegnata almeno sino al 2018.
Risulta chiaro a chiunque che l’intento umanitario è sia nella produzione di armi che nella gestione delle aree di interesse culturale, poiché entrambe convergono a consolidare la pace e la democrazia; ma, in questo mondo infestato dalla mala pianta dei complottisti, qualcuno potrebbe sospettare che il filantropo Packard usi la sua fondazione come ulteriore strumento di occupazione di un territorio già disseminato di basi militari USA. Tali ingenerosi sospetti coinvolgono anche il ministero dei Beni Culturali, che sarebbe ormai talmente occupato dal lobbying delle ONG filantropiche, da essere diventato un’agenzia di privatizzazione strisciante delle aree archeologiche più prestigiose e turisticamente remunerative. La privatizzazione potrebbe essere presentata come inevitabile se si ponesse l’emergenza di un ritiro della qualifica di Patrimonio Culturale dell’Umanità da parte dell’Unesco.
In questo malaugurato caso però si potrebbe rimpiazzare Pompei riconoscendo il titolo di Patrimonio Culturale dell’Umanità al prefetto Gianni De Gennaro. Non si tratta di un volo pindarico, poiché effettivamente De Gennaro costituisce un’enciclopedia vivente dei meccanismi del potere: dalla polizia, al commissariato per l’emergenza rifiuti, alla direzione dei servizi segreti, poi la nomina a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, sino a diventare oggi un collega di Packard. Il Cursus Honorum di De Gennaro si è potuto realizzare in modo assolutamente trasversale agli schieramenti politici ed alle dinamiche dei partiti, a dimostrazione che queste furiose diatribe tra destra e “sinistra” costituiscono un semplice talk-show.
Appena diventato presidente della maggiore industria italiana degli armamenti, Finmeccanica, De Gennaro è stato oggetto degli strali degli sprovveduti, che si sono domandati cosa ci faccia un ex poliziotto, e poi supremo dirigente dei servizi segreti, a capo di un’industria degli armamenti; come se non fosse arcinoto alle cronache che i maggiori piazzisti di armi nel mondo sono proprio i servizi segreti. L’importante è che le cronache rimangano abbastanza generiche e sopravvengano a fatto compiuto, a meno di non voler fare la fine di Ilaria Alpi, eliminata per aver disturbato un affare di armi del SISMI in corso in Somalia. Senza rivangare troppo questi casi incresciosi, si può soltanto concludere che il fatto che il piazzista ora sia addirittura diventato presidente costituisce semplicemente un esempio di sana meritocrazia. Il quotidiano “Il Sole-24 ore” ha infatti celebrato anche la nomina di De Gennaro a presidente di Finmeccanica, osservando che sicuramente gioveranno all’azienda gli storici ed eccellenti rapporti dello stesso De Gennaro con gli Stati Uniti.
Che i rapporti di De Gennaro con gli USA siano ottimi, è provato dal fatto che egli sia l’unico straniero ad essere insignito con la massima onorificenza del Federal Bureau of Investigation. Ecco finalmente uno che potrà parlare con il Pentagono e con tutti i servizi segreti USA in piena familiarità.
I soliti complottisti sospettano persino che De Gennaro avesse a che fare con i servizi segreti ancor prima di diventarne ufficialmente dirigente. Il SISDE fu infatti presente a Genova nel 2001 durante il famigerato G8, diffondendo notizie allarmistiche su manifestanti che avrebbero avuto intenzione di usare i poliziotti come “scudi umani”. Proprio il tipo di notizie utili a creare il clima per il massacro alla scuola Diaz. La informativa SISDE sugli “scudi umani” fu riportata a suo tempo da quel giornale indipendente e imparziale che è “La Repubblica”.
Ma chi tira in ballo argomenti del genere, non ha considerato le sacrosante motivazioni della sentenza che ha scagionato De Gennaro da ogni addebito per i fatti della Diaz. Parrebbe infatti che tutto sia avvenuto alle spalle di De Gennaro, il quale, per eccesso di affabilità e gentilezza d’animo, aveva difficoltà a farsi obbedire e prendere sul serio dai suoi sottoposti. Insomma, non lo pensava nessuno.
Per consolare il meschino di tanta incomprensione, arrivò per lui nel 2008, da parte del Presidente del Consiglio Prodi, la nomina a commissario per l’emergenza rifiuti a Napoli. La nomina fece scandalizzare gli sprovveduti e gli invidiosi del merito altrui, i quali si domandarono cosa c’entrasse De Gennaro con la monnezza. Invece, probabilmente, i rapporti di De Gennaro con la monnezza erano storici. Forse già allora egli si occupava e preoccupava di questioni attinenti agli armamenti ed alle loro ricadute in termini di sostanze tossiche.
Un paio di mesi fa un parlamentare del M5S, tale Roberto Fico, ha proposto che i militari italiani siano ritirati dall’Afghanistan per venire a presidiare il territorio della Campania, in modo da impedire gli sversamenti illegali di rifiuti tossici da parte della camorra. Fa sempre piacere quando questi movimenti nati in odore di estremismo, riconoscono finalmente il ruolo prezioso per la Nazione svolto dalle nostre gloriose Forze Armate.
Evidentemente Fico pensa agli sversamenti legali di scorie attuati dai militari, come quello ripreso in un video dell’ottobre 2008 nella discarica di Chiaiano. Peccato che riprendere video del genere sia sempre più rischioso, poiché con la Legge 123/2008, le discariche sono state proclamate aree di interesse strategico nazionale, e quindi coperte da una fattispecie di segreto militare.
Come quella di Forrest Gump, anche la biografia di Gianni De Gennaro costituisce la luminosa dimostrazione che non esistono cospirazioni o associazioni a delinquere, ma che la vita è tutta un gioco di felici coincidenze. Infatti il caso vuole che faccia parte del gruppo Finmeccanica una delle più importanti aziende specializzate nel prelievo e nello smaltimento di scorie tossiche, cioè l’Ansaldo Nucleare. Le centrali nucleari stanno lì apposta ad insegnarci che economia ed affari sono cose non solo diverse, ma addirittura opposte: più un affare è lucroso, più sarà antieconomico. Infatti il vero e grande business delle centrali nucleari non consiste nel loro funzionamento, bensì nella loro dismissione, nel cosiddetto “decommissioning”. Produrre energia nucleare non rende, mentre fa guadagnare moltissimo gestire la rimozione e lo smaltimento delle scorie radioattive.
Quanto può durare e quanto può costare il decommissioning di una centrale nucleare? La risposta è un segreto, sia segreto di Stato che segreto militare. “Segreto” va inteso nel modo corretto, non nel senso che le cose non si vengano a sapere, ma nel senso che non si deve rendere conto di nulla. Questa impunità legalizzata crea assuefazione nell’opinione pubblica, perciò viene percepita alla fine come innocenza; quindi, anche quando le evidenze sono a disposizione di tutti, si continua a non voler vedere e non voler sapere. Il fatto che De Gennaro sia assurto ai fasti della presidenza di Finmeccanica, conferma quanto già era evidente, e cioè che il rapporto tra questo gruppo industriale ed i servizi segreti è organico: si tratta di due facce della stessa medaglia. I soliti sospettosi potrebbero osservare che l’esistenza di un tale intreccio tra servizi e segreti e Finmeccanica andrebbe a liquidare l’ipotesi che l’attentato del maggio dello scorso anno all’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare potesse essere alla portata dei due imputati attualmente sotto processo a Genova. Anzi, si porrebbero dubbi su tutta la formazione del meccanismo “probatorio”. Tanto più che la Procura di Genova non ha potuto neppure contestare ai due imputati della presunta “Cellula Olga” il reato associativo, poiché l’articolo 416 del Codice Penale indica per questa specie di reato un minimo di tre persone organizzate fra loro.
Ma chi facesse obiezioni del genere, non terrebbe conto del fatto che il terrorismo è una categoria puramente morale, che sospende tutte le leggi della logica, della fisica e della biologia; il terrorismo è un mondo a parte, dove la cattiva intenzione rende possibile ogni cosa.

 
 
Ricordiamo peraltro che De Gennaro è stato pure “special advisor” per il governo italiano del programma di ricostruzione del sistema giudiziario e penitenziario in Afghanistan, comprendente anche la riattivazione e la creazione di nuovi carceri speciali, compresi quelli per le donne.
 

A proposito di Rauti (Isabella), ministeriale “fantasy”

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Isabella Rauti, classe 1962, è stata nominata dal Ministro dell’Interno Angelino Alfano a ricoprire il ruolo di Consigliere del Viminale nella lotta al contrasto al femminicidio.

E’ stato sostenuto dal Ministro che la scelta è stata dettata dalle competenze di Rauti in tema di violenza di genere e pari opportunità.

Sul sito personale di Rauti è possibile consultare il curriculum vitae, un primo passo per verificare la fondatezza delle motivazioni di merito riferite da Alfano: la stragrande maggioranza delle pubblicazioni e delle esperienze di Isabella Rauti sono riconducibili a nomine politiche istituzionali o accademiche (quindi, politiche, poiché a noi non piace l’ipocrisia). In particolare, dal 2003 al 2007 (nel triennio 1994-1997 è nominata Componente della Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, istituita presso la Presidenza del Consiglio) Rauti ricopre il ruolo di consigliera nazionale di Parità presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, fino ad essere scelta come Capo Dipartimento del Ministero per le Pari Opportunità con il governo Berlusconi.

Se eccettuiamo le pubblicazioni istituzionali (solitamente frutto del ruolo ricoperto), le altre, poche, riguardano la contro-rivoluzione vandeana e un maldestro tentativo di accreditare l’emancipazione femminile al Fascismo (durante la sua direzione del Centro Studi Futura, associazione culturale fascista che produrrà nella sua breve vita un solo pamphlet dal titolo “Gli angeli e la rivoluzione. Squadriste, intellettuali, madri, contadine: immagini inedite del fascismo femminile” per le edizioni Settimo Sigillo), oltre al testo “I Paladini della reazione – Il pensiero antirisorgimentale in Italia nella prima metà dell’Ottocento”, sempre per le edizioni Settimo Sigillo.

E’ abbastanza chiaro che nessuna di queste pubblicazioni può valere una cattedra universitaria né tantomeno possono ricoprire alcuna scientificità le case editrici proponenti: le edizioni Settimo Sigillo, ad esempio, sono parte del network editoriale neofascista italiano (tra gli ultimi autori proposti dalla SS – “strano” acronimo della casa editrice – troviamo il terrorista nero Pierluigi Concutelli, assassino del pm Occorsio che indagava su Ordine Nuovo, e responsabile di molte altre nefandezze). I temi trattati – dall’anti-illuminismo alla critica della modernità, dall’anti-femminismo all’anti-egualitarismo –vengono trattati con approssimazione analitica e sono privi di alcun contributo di approfondimento o novità che ne possa giustificare una qualsivoglia attenzione.

Più semplicemente: cosa c’entra questa paccottiglia con le competenze in tema di genere?

Sul piano professionale Rauti è una mediocre intellettuale, mentre al contrario sembra avere un eccezionale successo nei salotti buoni della borghesia di sinistra, oltre che in quelli ben più importanti e blasonati delle più alte istituzioni di Stato.

Una carriera singolare, quella di Rauti, che giovanissima si batte per una restaurazione anti-femminista dentro e fuori l’Msi, come militante del settore femminile del partito e della sua struttura giovanile, fino a fondare – con Flavia Perina, Annalisa Terranova ed altre camerate – la rivistina ciclostilata “Eowyn”, il cui titolo rimanda all’imprescindibile ed unica bibbia teorica delle e dei rautiani dell’epoca, “Il signore degli Anelli”.

La rivista è imbarazzante per la pochezza concettuale in rapporto all’alta ambizione dichiarata di voler muovere battaglia ai contenuti “sessisti” del femminismo egemonico (siamo alla fine degli anni Settanta). Grottesca l’asimmetria tra le copertine inneggianti a muse medioeval-rinascimentali, guerriere di grandi castelli a fianco di virili cavalieri, e i contenuti, per lo più riguardanti la moda, il senso del pudore oltraggiato dalle femministe impudiche, la lotta all’aborto, al divorzio, alla contraccezione (eh si…).

Nessuno e nessuna, dentro e fuori l’Msi, dentro e fuori i movimenti neo-fascisti, ha mai notato o letto, probabilmente, quella rivista. Fino ad un fortunato giorno del mese di marzo del 1981, quando ad accorgersi dell’inutile foglietto è addirittura “Noi Donne”, rivista femminil-femminista del Pci, grazie all’articolone di Silvia Neonato dal titolo “Le guerriere, le vestali e le altre”.

Dettagli? Neanche per idea.

Le femministe del piccì decidono probabilmente che le rautiane (da Pino Rauti, padre vero di Isabella e putativo politico del collettivo di Eowyn) servono alla causa della “sorellanza”, per fare breccia nella destra eversiva dell’epoca, stimolandone, per così dire, l’emersione di un riformismo che ancora oggi stenta a vedersi (non possiamo mica prendere sul serio Futuro e Libertà).

Cosa resta oggi di quella antica, e ancora oggi percorsa, pratica politica dell’utilizzo delle contraddizioni altrui fatta da sinistra?

Resta Rauti e il suo opportunismo politico e personale, fatto di oblique relazioni destra-sinistra nei tanto vituperati salotti buoni del femminismo mainstream che l’hanno aiutata a crescere politicamente e ad avere ed ottenere ascolto, perché presentata da donne autorevoli, di specchiato passato nelle lotte per la liberazione delle donne; grazie a queste remunerative relazioni e ai suoi passaggi istituzionali crescono le sue “competenze” in tema di Pari Opportunità, un concetto che a Rauti dà l’orticaria fin da adolescente, quando da fascista lottava contro l’eguaglianza tra i sessi e contro la “guerra femminista tra i sessi”, dimostrando di meritare 2 in filosofia e 9 da politicante, poiché è grazie a quella stessa guerra tra i sessi, “femminista e quindi sessista”!, che oggi Rauti ha gli incarichi che ricopre, pur mostrando di non aver capito veramente niente del femminismo e delle sue istanze.

Tra l’altro, com’è noto, la sua lotta politica è di difesa del ruolo materno e della differenza sessuale biologica: notevole pensare che colei che dovrebbe “consigliare” contro le stereotipie discriminanti di genere, consideri le differenze biologiche tra i sessi fondative dei ruoli di genere…Invece di leggere quel fascista di Evola, farebbe meglio a capire di cosa stiamo parlando quando ci riferiamo a sesso e genere, poiché è proprio l’idea tradizionalista e bigotta di Rauti a confermare, riprodurre e moltiplicare atteggiamenti violenti e sessisti verso chi eccede la norma biologica di divisione sessuale.

Ma Rauti ha una benché minima idea di cosa stiamo parlando, o conosce (e continua a leggere) gli unici rassicuranti tre autori fascisti fin dall’adolescenza?

Se queste sono le competenze…!

Dunque è grazie all’intelligenza politica (…) di quelle vecchie volpi del piccì, quelle che la sanno lunga, quelle che sanno “manovrare”, che oggi Rauti può permettersi, impunita, di inquinare costantemente la lotta per la liberazione delle donne promuovendo infami azioni di depistaggio quali il “Manifesto del nuovo femminismo”, una raccolta di firme contro l’aborto promossa dal Movimento per la Vita, la cui promotrice è Olimpia Tarzia, una signora che a Roma purtroppo conoscono bene.

E’ ancora grazie a costoro che Flavia Perina è accolta in nome della sorellanza sui palchi delle “Se non ora quando?”, senza che nessuna a sinistra provi vergogna o imbarazzo o esiga da lei i nomi degli assassini di Walter Rossi, dato che lei non può non sapere.

E’ ancora grazie a costoro se la prima prova politica di superamento dei posizionamenti di destra e sinistra possiamo accreditarla storicamente ad opera di alcune donne del maggior partito di sinistra dello schieramento istituzionale.

A sinistra i risultati di questa memorabile! operazione politica stanno a zero, mentre, a quanto pare, ancora oggi alle stesse signore e alle proprie figlie, biologiche e non, piace insistere negli stessi errori del passato.

Il femminismo antifascista, al contrario, ricambia ogni inimicizia verso Isabella Rauti, diffidandola dall’occuparsi di questioni di cui poco capisce e nulla condivide.

Alcune compagne femministe antifasciste

VALSUSA: DEVASTAZIONE E SACCHEGGIO

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C’è un bosco in Valsusa, a Chiomonte, che patisce un’aggressione devastatrice: oltre 5.000 alberi già abbattuti, con castagni di oltre 268 anni d’età, piantati prima della Rivoluzione francese.

Bosco di struggente bellezza che costituiva un importante snodo viario frequentato dal neolitico fino all’epoca moderna fra le Valli di Susa e le vallate del Rodano in Francia.

Bosco che veste importanti testimonianze storiche che dalla preistoria,
passando per il medioevo, fino al 18° secolo, raccontano il nostro modo di stare in un territorio e tracciano la strada per il domani.

Qui, nel giugno del 2011, per impiantare il “sito strategico” la necropoli è diventata piazza di manovra di pesanti mezzi militari, che hanno fracassato le casse lapidee delle sepolture neolitiche.
Settemila anni di storia cancellati da cingoli di guerra nella civile Italia.
Il museo adiacente alla necropoli è ora occupato e adibito a caserma.
I reperti più importanti, trasportati in fretta a Torino, hanno perso la naturale contiguità con il territorio circostante e gli altri reperti che ancora insistono inseriti nel bosco.
Noi, i nostri bambini, mai più potremo sentire quelle cose come nostre!
La Maddalena, a Chiomonte, è un luogo dove il paesaggio, il bosco, il patrimonio storico – artistico coesistevano formando un unicum in cui i vari aspetti e beni vivevano in maniera indivisibile e unitaria: una meraviglia!
Distruggere il bosco e sostituirlo con piattaforme di cemento funzionali allo scavo di un tunnel geognostico, finalizzato alla nuova linea ferroviaria Lione-Torino, che renderanno quel monte sterile è un delitto più grave che spiantare da piazza dei Miracoli la torre di Pisa per impiantarla al Polo Nord.
Andiamo a rileggere l’articolo 9 della nostra Costituzione!
Il bosco non esiste solo come bene paesaggistico o fabbrica di legname, è un bene più profondo, è un “bene comune”, come l’acqua, anch’esso indispensabile alla vita, a tutte le vite, ogni processo chimico è debitore al bosco.
Nessuno, neppure lo Stato, può arrogarsi il diritto di distruggere un bosco. Dovere dello Stato è proteggere il bosco, ogni bosco (che differenza tra il bosco della Maddalena e quello di Castelporziano?) e normarne l’uso per tutelare il bene comune.
Quale diverso trattamento dai media tra il Gezi Park di Istambul esaltato e il bosco della Clarea umiliato.
Promettere una ripiantumazione, nella migliore delle ipotesi fra trent’anni, su un terreno cementificato e stravolto nella sua fisiologica struttura di frana non mitiga la sottrazione-furto del bene comune.
Follia lo studio e le promesse di una nuova collocazione museale dal costo di 800.000 Euro che mai sanerà la ferita del cantiere.
A tutti, donne e uomini di buona volontà, sensibili al futuro, il dovere di difendere quel poco di bosco che ci rimane ed opporci, anche fisicamente, alla logica del profitto e della corruzione. Da un’opera che nella sua genesi porta i semi della distruzione del bello non può derivare che corruzione e morte.

27 giugno 2013 Comitati no tav

“Serve una Thatcher per la sinistra”?

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Slavoj Žižek

Serve una Thatcher per la sinistra

Internazionale n. 997, anno 20, 25 aprile/2 maggio 2013 (Articolo originale qui)

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A pochi giorni dal funerale forse maggiormente mediatizzato nella storia dei leader politici dalla fine della secona guerra mondiale – se eccettuiamo poche eccezioni, certo non contraddistinte dagli Osanna di tutti i capi di stato e di partito occidentali – il filosofo Slavoj Žižek scopre la meravigliosa capacità egemonica della Thatcher, oltre ai suoi meriti personali.

Sarebbe fin troppo facile polemizzare con lui sulla base di una simpatia dichiarata per la defunta, oggetto di contestazione anche nel giorno della sua celebrazione ex-post.

E’ perfino imbarazzante dover spiegare brevemente che se la presupposta egemonia thatcheriana è stata certamente evidente nel partito laburista, al contrario è stata profondamente estranea ai bisogni (senza scomodare i desideri) della classe operaia inglese, degli studenti e studentesse del Regno Unito, di tutti-e coloro che grazie alla leadership della Madame hanno scoperto o inventato bellissime scorte di sotto-cultura come il punk.

Uno dei difetti più grandi di certi teorici è ritenere la massa poco più di un rumore di sottofondo, fastidioso a tratti, sul quale si alzano profonde e perentorie le voci dei Soggetti unici della Storia.

Essi sono uomini, adulti, sono stati eletti o meno (un dettaglio), sono sempre espressione della classe dominante, qualunque essa sia. Non fa eccezione la Thatcher (né la Merkel, aggiungo) sostiene Ken Loach, poiché esse sono “maschili” quanto e più dei loro colleghi. Se non basta essere dotate di organi riproduttivi per fare una politica diversa da quella patriarcale, di certo è evidente a tutte, oggi, che men che mai tali organi possono fornire anticorpi utili alle politiche di dominazione e colonizzazione capitaliste.

Non vi è “eccezionalità” se non biologica, ed essa ha un valore e conta solo per le classi subalterne (quelle si, biologizzate e razializzate, come deve essere per chi sta sopra).

Tuttavia, non voglio evitare il tema né la tesi di Žižek e dunque giungo al punto.

Žižek sostiene che le proteste e le proposte – già attuate perché sperimentali, quindi praticate – di gruppi almeno significativi di popolazione europea, americana e africana “rappresentano una sorta di ‘ostacolo epistemologico’ a un vero confronto con l’attuale crisi del nostro sistema politico”. Nella storia, sostiene il filosofo, il Capo rappresenta la divisione (e la sua soluzione positiva) tra vecchio e nuovo, tra chi “vuole tirare avanti all’interno dei vecchi schemi e chi è consapevole della necessità di un cambiamento”.

Ovviamente il Capo è illuminato, e pur provenendo da una delle due fazioni calcistiche – lo supponiamo, dato che il filosofo si dimentica di offrirci numi circa la sua provenienza sociologica e/o politica – farà ciò che è giusto. L’aspettativa messianica in tempi di crisi è comprensibile, soprattutto se viene da un teorico di quella religione laicizzata che è la psicoanalisi, quel che lascia un pochino perplessi è l’evidente mancanza di fantasia che tale prospettiva denuncia. Il conformismo abissale di siffatta speranza potrebbe essere perfino oggetto di sarcastiche considerazioni gramsciane a proposito del “buon senso comune”.

L’autorganizzazione diretta è per Žižek un “mito”, “l’ultima trappola, l’illusione più profonda che deve ancora cadere e quella a cui è più difficile rinunciare”.

Se è vero, come sostiene il Prete laico delle belle Speranze, che in ogni processo rivoluzionario “ci sono momenti estatici di solidarietà di gruppo”, e anche “momenti di intensa partecipazione collettiva”, la Religione dell’ordine conformista ci ricorda a duro monito che tuttavia “queste situazioni non durano”.

E attenzione: non durano non perché represse nel sangue proprio per mano dei sicari dell’ordine conforme della Repressione – i cui Capi soltanto! conoscono e perseguono il nostro bene – ma perché “la stanchezza qui non è un semplice fatto psicologico, è una categoria di ontologia sociale”.

Ve li ricordate, si?, i compagni a Kronstadt quanta noia…come decisero spontaneamente di arrendersi a Trotskj offrendogli le armi e le munizioni…e come i partigiani e le miliziane spagnole, dopo mesi di sofferenza, stenti, fame, malattie e uccisioni in trincea, stufi di tanto ardimento, scelsero di restituire a Franco la Spagna, con mediazione dell’altro Capo illuminato della fazione comunista-conformista Stalin…e ancora oggi, c’è da prevedere un repentino crollo di sonno da parte delle compagnie zapatiste, che da molto (troppo!) resistono persino senza un Capo (e cantino due ave maria per penitenza!!).

Fortuna che c’è Žižek, che sa già cosa è il nostro bene: “la grande maggioranza – me compreso – vuole essere passiva e affidarsi a un apparato statale efficiente che garantisca il funzionamento dell’intero edificio sociale, per potersi dedicare in pace alle sue attività”.

Certo, per il prete Žižek è facile che questo sia vero. Per un lavoratore thatcherizzato un po’ meno, poiché “le sue attività” rischiano fortemente di essere il solo lavoro schiavizzato, una morte causata dall’organizzazione produttiva, il carcere se trasgredisce le regole del Capo. E credo di potermi arrischiare a stilare una lunga lista di biografie non dissimili, se non per età, sesso, etnia, orientamento sessuale, abilità ecc., che partecipano della stessa classe sociale (più o meno, ma ci intendiamo) del lavoratore di cui sopra.

Guarda caso, complotto dei complotti, gli stessi soggetti che autogestiscono l’esistente in questi tempi di crisi…quale presunzione!

E Žižek infatti si affretta a metterci una toppa (che non si dica che ne sa una più del diavolo): “quanto alla moltitudine molecolare autorganizzata contro l’ordine gerarchico sostenuto dal riferimento a un leader carismatico, si noti l’ironia del fatto che il Venezuela – un paese elogiato da molti per i suoi tentativi di sviluppare modalità di democrazia diretta (consigli locali, cooperative, lavoratori alla guida delle fabbriche) – è anche il paese che ha avuto come presidente Hugo Chàvez, un forte leader carismatico”.

Molto ironico davvero…soprattutto l’elogio di Chàvez, proveniente in larga misura dai Capi dei paesi americo-latini capitalistici: un mix di bon ton istituzionale e empowerment di mercato.

Chiedesse Žižek ai lavoratori e alle lavoratrici venezuelane se sono tutti e tutte così tanto contente della via chàveziana. Ma sono solo rumori di sottofondo, e, fossero anche insorti, in procinto di abdicare al potere per ragioni “ontologiche”, pardon, decise dal Signore, che poi è lo stesso che dire “ontologia”.

Non ci dilunghiamo oltre, dato che il prete Žižek chiama in aiuto un altro grande Prelato dell’Ordine da ripristinare, Alain Badiou, a sostegno del fatto che “un soggetto ha bisogno di un Capo per elevarsi al di sopra dell’ ‘animale umano’”.

A Žižek e all’amico di fede Badiou auguriamo di trovarsi, un certo giorno di un certo anno a venire, in una piazza Tahrir di un qualsiasi luogo, attorniati da masse animalizzate e affette da un non meglio precisato “senso di minorità”, ma in preda ad un incontrollato e deleuziano desiderio di farla finita con i Capi/Padri dell’Edipo.

 

Magù

ESSERI SINISTRI

Voglio ricordare che la legalità è un valore di sinistra e che condannare e combattere la violenza e i violenti è di estrema sinistra.(Stefano Esposito, senatore PD. La Stampa, 16 maggio 2013)

Al partito sono preoccupati? Non devono esserlo: nessuno vuole spaccare vetri.

(Andrea Giorgio, segretario regionale toscano Giovani Democratici. Il Tirreno, 11 maggio 2013)

 

evaso

 

Per qualche secolo, l’essere di sinistra coincidendo con il pensiero socialista ha significato un agire politico e sindacale per l’emancipazione della classe lavoratrice, rivendicando nell’immediato uguaglianza economica e giustizia sociale e prefigurando l’abolizione dello sfruttamento capitalista e il superamento dello stato borghese.

L’anarchismo, ponendosi fuori dalla tattica parlamentare, si è storicamente posto all’estrema sinistra del movimento socialista, optando per la rivoluzione sociale e la contemporanea distruzione di ogni potere politico e quindi la negazione di qualsiasi governo o stato, comprese le varianti liberali, democratiche e socialiste, ritenendo necessaria e fattibile l’autogestione generalizzata della società. 

Questo progetto radicalmente alternativo ha di conseguenza segnato la differenza di pratica e etica tra l’anarchismo e le ipotesi riformiste dei partiti socialdemocratici, ma anche verso le opzioni autoritarie dei partiti comunisti volte a instaurare il socialismo di stato.

Tali differenze, anche conflittuali, tra socialismo libertario, legalitario e autoritario restano immutate nella sostanza, alla luce sia della caduta dei regimi “comunisti” che di fronte alla crisi epocale del capitalismo e del suo ordinamento politico, assieme a tutte le illusioni progressiste di modifica umanitaria o di pacifica democratizzazione, tanto che gli eredi di quella che fu la “sinistra riformista” appaiono ormai precipitati dentro una voragine di senso e identità.

Smarriti o rinnegati i riferimenti e i principi alla base del pensiero socialista (e persino quelli ereditati dalla rivoluzione francese: Liberté, Égalité, Fraternité) ritenuti alla stregua di anticaglie, elettori ed iscritti stanno quindi ora scoprendo il nulla che regna dietro i propri dirigenti e, soprattutto, il vuoto di opposizione e alternativa al naufragio di un sistema politico e economico.

Prima l’autodistruzione craxiana del partito socialista, dissoltosi proprio quando stava per festeggiare il centenario della sua fondazione, quindi la progressiva dissoluzione del partito comunista e la sua mutazione in un partito dichiaratamente “non di sinistra”.

Per decenni, tale vuoto è stato dissimulato dall’antiberlusconismo, ma adesso che il “nuovo” governo di larghe intese non lascia margini di speranza ai lavoratori e ai senza reddito, il cadavere della sinistra politica è davanti a tutti: dopo decenni di compromessi, responsabilità, concertazione, sacrifici, moderazione è arretrata – cedimento dopo cedimento – sino a non avere più spazi di manovra e rovinare in una desolante resa totale.

Eppure, neanche in un frangente in cui sarebbe vitale trovare coraggio e energia per ridare forza all’iniziativa e alla voglia di effettivo cambiamento che pure esiste nella società, la principale preoccupazione governativa di una ex-sinistra datasi volontariamente in ostaggio alla destra è che non esplodano in forma conflittuale le contraddizioni sociali, né che venga messo in discussione il dominio del capitale, anche quando è ormai evidente che la logica del profitto sta condannando l’umanità alla miseria, alla distruzione dell’ambiente e allo stato di guerra permanente.

Piuttosto che dare spazio alle lotte, ai movimenti di base e all’autorganizzazione dal basso, si accetta con rassegnazione lo stillicidio di suicidi per mancanza di lavoro, reddito, futuro mentre, alla faccia della retorica della crisi che colpisce tutti, continua a crescere il divario tra chi ha e chi non ha.

La stessa preoccupazione per l’ordine pubblico percorre non casualmente la destra, come attestano le parole del ministro postfascista dell’interno Alfano, ma anche SEL che, per bocca del suo leader Vendola ha più volte condannato ogni “estremismo”, così come quel Movimento 5 Stelle che vuole accreditarsi come unica opposizione e alternativa “gandhiana” alla rivolta. Emblematica la recente dichiarazione di Grillo: «In Europa sono rimasti agli scontri di piazza mentre noi abbiamo fatto entrare la polizia nel movimento» (Corriere della Sera, 19 maggio 2013).

Sarebbero questi quelli che dovevano “destabilizzare il sistema”?

 

CFG  

LA FESTA DELL’INSURREZIONE

Partigiane e partigiani della "Settecomuni" nel bosco nero, giugno 1944
Partigiane e partigiani della “Settecomuni” nel bosco nero, giugno 1944

Il ricordo del 25 aprile 1945 ormai, sia per la destra che in certa sinistra democratica, appare come storia morta e sepolta.

Storicamente parlando, il Venticinque Aprile sarebbe più corretto considerarlo e festeggiarlo come l’anniversario dell’insurrezione contro il nazifascismo, piuttosto che come quello di un’imprecisata Liberazione.

Infatti, quel giorno iniziò nel Nord Italia – ancora sotto l’occupazione militare germanica affiancata dai collaborazionisti della Repubblica di Salò – la sollevazione popolare e partigiana, ma in molte zone i combattimenti durarono ancora diversi giorni e furono effettivamente liberate una settimana dopo.

Inoltre, anche dopo la liberazione delle città e delle valli dalle truppe nazifasciste, la prospettiva di una liberazione non soltanto nazionale rimase incompiuta, così come restò aperta la questione politica ed economica con le sue immutate ingiustizie sociali.

Così, a distanza di tanti decenni, il 25 aprile si riduce ad occasione in cui disquisire di morti, dell’una e dell’altra parte, piuttosto che delle convinzioni che armarono i vivi e li videro contrapposti per ragioni etiche e idee di società assolutamente antitetiche.

All’interno di questa danza macabra, come al solito i vecchi nostalgici e i nuovi sostenitori del fascismo si dimostrano imbattibili nel tentativo di far apparire “tutti italiani” coloro che combatterono quella guerra civile, indistinte vittime dell’odio fratricida e delle ideologie.  Ma dietro questa apparente equiparazione, evidenziano però che non solo entrambe le parti si macchiarono di delitti, ma come i “comunisti” e gli “anarchici” si dimostrarono in realtà come i più spietati assassini dei “fratelli” che avevano “solo” il torto di essersi schierati con le truppe di Hitler, in nome di un improbabile senso dell’onore.

Tale frenesia revisionista nel cercare prove della “barbarie rossa” è talvolta così morbosa da indurre in errori tragicomici: nel 2004 nei pressi di Argenta (Fe) una presunta fossa comune di poveri “ragazzi di Salò” massacrati dai partigiani, clamorosamente usata per criminalizzare la Resistenza e la sinistra, si rivelò il cimitero dimenticato di un antico convento; analogamente, è avvenuto a San Giovanni Persiceto (Bo), quando lo scorso settembre è stato risolto il caso di 34 scheletri trovati nel 1962, sotterrati in un campo. Al tempo era stata, faziosamente, accreditata l’ipotesi di un eccidio partigiano contro persone legate al fascismo, e il parroco del paese, monsignor Guido Franzoni, celebrò persino i funerali in forma solenne davanti a una bara vuota. Dopo mezzo secolo, i resti analizzati con il metodo del radiocarbonio hanno rivelato che le ossa risalgono all’Alto Medioevo. D’altra parte, l’intento di certe “denunce” non è mai finalizzato a ricostruire storicamente le vicende di una guerra civile, iniziata nel 1919 con il sorgere del fascismo e durata oltre un ventennio, che nella sua fase finale vide anche episodi di giustizia sommaria e vendetta per violenze impunite, ma soltanto a mettere sotto accusa chi scelse di ribellarsi, facendosi disertore e fuorilegge, alla dittatura e alla guerra di Mussolini e del Terzo Reich.

Una scelta, questa sì controcorrente e di coraggio, mentre la maggioranza obbediva senza credere oppure aspettava la fine del regime senza assumersi alcuna diretta responsabilità per cercare di affrettarne la caduta e mettere fuori gioco gli squadristi, gli aguzzini e i delatori al servizio dello stato fascista.

Per questo il mito dei morti “tutti uguali” non ha senso e mette, colpevolmente, sullo stesso piano i carnefici e gli spettatori dello sterminio dell’umanità – dai bombardamenti all’iprite sulle popolazioni libiche e etiopiche alle leggi razziali, dalle torture ai lager – a fianco di quanti vi si opposero e non esitarono a combattere in prima persona per vivere un presente e un futuro di libertà e dignità umana.

Da qui, l’attualità di difendere la memoria di quella scelta, rifiutando la storia monumentale come quella antiquaria dell’antifascismo, a favore di una storia critica.

Critica, in primo luogo, verso la sottomissione al potere.

Uno come un’altra

MARTINA GUERRINI – DONNE CONTRO: ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale.

MARTINA GUERRINI DONNE CONTRO Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale Zero in Condotta, Milano, 2013 – pag. 82 con foto – Euro 10 Dalle prime sovversive che contrastarono lo squadrismo, alle operaie ribelli al regime, passando dalle militanti della cospirazione clandestina sino alle partigiane che seppero impugnare anche le armi, il fascismo dovette fare i conti con donne che non accettarono di sottomettersi al ruolo sociale e all’ideologia sessista che le voleva soltanto prolifiche e ubbidienti “giovani italiane”. A rovesciare tale subalternità, sostenuta dallo stesso Mussolini, fu una capacità di autodeterminazione che un ventennio non riuscì a vincere; dalle tante piccole storie di opposizione nascoste tra le “anonime” schedate del Casellario Politico, vengono infatti alla luce biografie di donne pronte a provocare la morale e la cultura dominanti. Tale irrisolta contraddizione di genere emergerà anche all’interno delle formazioni partigiane e, successivamente, nella storiografia resistenziale che opererà una rimozione nei confronti delle combattenti e delle prospettive di radicale liberazione che perseguivano.

MARTINA GUERRINI

DONNE CONTRO

Ribelli, sovversive, antifasciste nel Casellario Politico Centrale 

Zero in Condotta, Milano, 2013 – pag. 82 con foto – Euro 7

 

Dalle prime sovversive che contrastarono lo squadrismo, alle operaie ribelli al regime, passando dalle militanti della cospirazione clandestina sino alle partigiane che seppero impugnare anche le armi, il fascismo dovette fare i conti con donne che non accettarono di sottomettersi al ruolo sociale e all’ideologia sessista che le voleva soltanto prolifiche e ubbidienti “giovani italiane”.

A rovesciare tale subalternità, sostenuta dallo stesso Mussolini, fu una capacità di autodeterminazione che un ventennio non riuscì a vincere; dalle tante piccole storie di opposizione nascoste tra le “anonime” schedate del Casellario Politico, vengono infatti alla luce biografie di donne pronte a provocare la morale e la cultura dominanti.

Tale irrisolta contraddizione di genere emergerà anche all’interno delle formazioni partigiane e, successivamente, nella storiografia resistenziale che opererà una rimozione nei confronti delle combattenti e delle prospettive di radicale liberazione che perseguivano.

Per richiesta copie e contatto con l’autrice: zeroinc@tin.it

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UN LIBRO STRIDENTE: DONNE CONTRO

C’erano le armate, le donne armate, eccome c’erano! Ciascuna di noi sceglieva.

Lucia Boetto Testori, partigiana piemontese.

Secondo la storiografia ufficiale la Resistenza sarebbe nata l’8 settembre 1943 per concludersi il 25 aprile 1945, ma in realtà la guerra civile era iniziata nel 1919 e, non casualmente, la prima vittima fu Teresa Galli, giovane operaia socialista, uccisa a Milano il 15 aprile di quell’anno nella prima aggressione squadrista con Mussolini mandante.

Appare peraltro sempre più chiaro ed anche storicamente accertato che le Resistenze al fascismo sono state politicamente e socialmente molteplici, animate e attraversate da differenze di idee, di classe ed anche di genere.

Quest’ultima realtà, in particolare, dopo una lunga rimozione o minimizzazione, negli ultimi anni ha conosciuto sì un inedito interesse per il protagonismo femminile, ma quasi sempre condizionato da letture e interpretazioni storiografiche tendenti ad inquadrare e rendere compatibile questa esperienza – di forte rottura – dentro un quadro più rassicurante.

Così, in parallelo con lo stereotipo del guerriero maschio nella sua variante partigiana, si è voluto appiattire la lotta delle donne antifasciste nel ruolo di staffette e, comunque, di fiancheggiatrici della lotta armata in quanto “naturalmente” estranee alla pratica della violenza.

Eppure, sia nella storia italiana che nelle lotte proletarie, non era lontano un passato di donne che, sulle barricate o negli scioperi, erano state attrici di primo piano del conflitto e della rivolta contro l’autorità, “senza chiedere il permesso” degli uomini.

Così avvenne anche per tante donne guerrigliere, lungo le insidiose strade cittadine o alla macchia su aspri sentieri alpini, decise ad affermare, assieme alla loro opposizione al dominio e alla guerra fascista, pure la propria indipendenza nella vita e nella società, fuori dagli schemi del regime ma anche del patriarcato “di sinistra”.

Peraltro questa volontà si riscontra sin dal sorgere dello squadrismo e dell’ideologia mussoliniana, durante l’intero e tetro Ventennio, incrinato dal dissenso aperto o sommerso, clandestino o plateale, di tutte quelle donne – oltre cinquemila – che finirono schedate dalla polizia nel Casellario politico centrale.

Sovversive militanti o anonime popolane, vennero ritenute pericolose per l’ordine costituito, anche per il “cattivo esempio” che offrivano per le giovani che dovevano crescere nella vocazione all’obbedienza e al focolare domestico. Per questo, oltre all’essere inquisite come “nemiche interne” vennero puntualmente additate come donne di “pessima condotta morale” o di riprovevoli “facili costumi”.

Risulta quindi particolarmente interessante e tutt’altro che inattuale l’analisi dello sguardo sessista che “fotografava”, con stigma criminalizzante e perbenista, quelle donne che, più o meno consapevolmente, anche solo con il manifestare la propria libertà sabotavano il sistema oppressivo fascista.

Analisi che l’autrice, prendendo come campione significativo le donne di Venezia schedate da parte degli organi repressivi, mette bene in evidenza disarticolando il paradigma discriminante messo in atto dal funzionario di questura. Quello stesso tutore dell’ordine, sotto la cui uniforme o camicia nera traspariva la mentalità maschilista ma anche il moralismo cattolico e la difesa della tradizione familista, nonostante lui stesso fosse un abitudinario frequentatore dei bordelli che il regime proteggeva e incentivava a favore della maschia gioventù del littorio.

Non di meno, appare pertinente la riflessione critica attorno al “mito” della resistente non-violenta ma pure la messa in discussione della tesi che vuole il protagonismo delle partigiane quale ricaduta in positivo della propaganda patriottica e militaresca svolta dal fascismo, negando quindi la loro autonomia di pensare e scegliere di vivere “contro”, come passaggio necessario per una liberazione che certo non poteva essere solo quella nazionale o limitarsi alla conquista formale dei diritti democratici.

Per questo si tratta di un libro stridente, rispetto a molte interpretazioni che vanno per la maggiore anche nei contesti che si richiamano alla resistenza e all’antifascismo, ma anche nei confronti di alcuni settori femministi preoccupati più di interloquire con la politica istituzionale che di approfondire la rivolta.

Un libro necessario proprio per il suo stridere, in antitesi con le troppe accondiscendenze che certo non aiutano a ri-aprire prospettive da respirare come aria libera di montagna.

Archivio antifascista