CAMPAGNA per la CHIUSURA dei MANICOMI CRIMINALI (tutt’ora esistenti)

Rete antipsichiatrica, è per il 28 marzo, in piazza a Reggio Emilia

Dal 1904 al 1978, in Italia, è stata in vigore la Legge n. 36 (“Disposizioni sui manicomi e sugli alienati”) mediante la quale la decisione di rinchiudere e spesso seppellire una persona – per presunta pericolosità sociale o pubblico scandalo – in una galera psichiatrica era demandata, oltre che ai parenti, a pretori, procuratori, prefetti, questori, podestà e direttori di manicomi.
Anche se tale legge era stata emanata dal governo del liberale Giolitti, l’individuo vedeva annullata ogni tutela delle proprie libertà ed era consegnato inerme all’arbitrio statale, e risultava a tutti gli effetti un dispositivo legale volto a togliere dalla circolazione i soggetti “devianti”; infatti, la loro “colpa” e la loro “malattia” discendeva generalmente da una supposta pericolosità legata all’essere improduttivi oppure al turbamento l’ordine pubblico.
Il fascismo, perciò, accolse pienamente questo impianto ideologico e, soprattutto dal 1927, lo inserì nel suo stato di polizia, tanto che fissò nel Testo unico delle leggi di Ps le regole da attivare per il controllo dei degenerati e delle classi pericolose, oltre che dell’alienazione mentale, mirando a colpire ugualmente sospetti oppositori politici, donne di condotta immorale, rom e sinti, oziosi e altri soggetti marginali.
Dopo il 1945, caduto il fascismo, questa logica non registrò sostanziali mutamenti d’indirizzo, tanto che non furono pochi gli sventurati, prigionieri dei manicomi “civili” e “criminali” (ribattezzati “giudiziari”), che non si accorsero neppure del cambio di regime e la loro alienazione non venne neanche sfiorata dalla democrazia; al punto che soltanto nel 1978, a seguito di importanti lotte e movimenti che rifiutavano la separazione tra fuori e dentro, così come tra sani e malati, la famigerata Legge 36 fu soppiantata dalla Legge 180, conosciuta col nome di Franco Basaglia che era stato il principale ispiratore. Si trattò di una rottura epocale e l’esperienza italiana venne riconosciuta come all’avanguardia per il superamento dei manicomi che in seguito a questa legge furono aperti, pur se la non compiuta applicazione di questa lasciò sole le persone con disagio psichico e i loro familiari.
Ancora più desolante il quadro della detenzione nei manicomi giudiziari, dove le sentenze penali s’intersecano con le terapie psichiatriche, incluso il ricorso a metodi inumani (letti di contenzione, camicie di forza, elettroshock, farmaci annichilenti…).
Attualmente, in Italia esistono ancora sei Ospedali psichiatrici giudiziari (Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere), alcuni dei quali sono in strutture vecchissime, persino borboniche, che nei secoli hanno visto rinchiusi “soggetti devianti” di ogni genere: briganti, anarchici, sovversivi, lesbiche, omosessuali, senza dimora, alcolisti, etc.
Dentro questo “non-luoghi” vi sono tutt’ora internate 850-900 persone che, in seguito a perizie psichiatriche, sono state considerate non imputabili  per aver compiuto atti contrari alla legge, ma bollati come «socialmente pericolosi». Le persone detenute negli Opg vivono di fatto dentro un limbo giuridico e mentale, senza alcuna autonomia d’uscita, che passano la loro quotidianità in strutture fatiscenti dove la repressione fisica, chimica e psicologica è la norma.
A seguito di un’ispezione parlamentare, che nel 2013 fece “scoprire” ad alcuni senatori la realtà degli Opg, fu approvata la legge n°81/2014 che converte il decreto legge del 31 marzo 2014 n°52 recante disposizioni in materia di superamento degli Opg. Questo decreto, n° 52/2014, prevede la proroga dal 1° aprile 2014 al 31 marzo 2015 il termine -improbabile – per la chiusura degli Opg e la conseguente entrata in funzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione Misure Sicurezza), in una logica di decentramento piuttosto che di abolizione della detenzione psichiatrica.
Nelle future REMS la durata della misura di sicurezza non dovrebbe essere superiore a quella della pena carceraria corrispondente al medesimo reato compiuto. Tuttavia la costruzione delle REMS, affidata alle Regioni, non è stata avviata quasi da nessuna parte, perciò è
presumibile che, ancora una volta, si passerà ad un altro rinvio.
Qualora dovesse concretizzarsi queste nuove strutture vedranno comunque una gestione (come per i CIE) affidata al privato sociale, magari confessionale, andando così incontro a fenomeni di allungamento della degenza per assicurarsi i finanziamenti, con una presa in carico vitalizia ad opera dei servizi psichiatrici.
In questo contesto la questione centrale rimane quella del superamento del modello di internamento, per non riproporre gli stessi meccanismi e gli stessi dispositivi manicomiali in nuove istituzioni totali, seppure di dimensioni ridotte.
«La realtà manicomiale, – come ha scritto G. Antonucci – che si può toccare perché è fatta di pareti, è ben poca cosa di fronte alla diffusione del concetto stesso di manicomialità che si fonda esclusivamente sulla persistenza del giudizio psichiatrico. Ritengo che a poco serva attaccare l’istituto del manicomio se non si porta un attacco radicale allo stesso giudizio psichiatrico che ne è alla base, mostrandone l’insussistenza scientifica. Finché non sarà abolito il giudizio psichiatrico la realtà della segregazione continuerà a fiorire dentro e fuori le pareti dei manicomi».

L’esistenza degli Opg evidenzia perciò l’enorme potere della psichiatria il cui giudizio, non basato su fatti ma su supposizioni pseudo-scientifiche, costituisce la base per la segregazione dell’altro, non tanto per “curarlo” ma allo scopo di separarlo da una società ritenuta “sana”.
Contro le sbarre della psichiatria e la micidiale normalità di uno stato di permanente alienazione sociale, attivarsi per la chiusura definitiva degli Opg diventa quindi il primo passo per aprire spazi di autodeterminazione, individuale e collettiva, nonché per rivendicare la
libertà alla non-omologazione e alla diversità, contro ogni polizia in divisa o in camice bianco.

L’appuntamento, nazionale, promosso dalla Rete antipsichiatrica, è per il 28 marzo, in piazza a Reggio Emilia.

(per info: http://artaudpisa.noblogs.org/)